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MUSICA - ANNIVERSARI

Il “No Future” di una volta: 35 anni fa, i Sex Pistols

Un quarto di secolo da che John Lydon detto "il Marcio" fece la sua comparsa sulle scene cantando di essere l'Anticristo e avvertendo il gentile pubblico che non c'era futuro. In Never Mind the Bollocks si ritrova ancora tutta la rabbia di quei giorni di crisi, economica e di valori. Ricorda qualche cosa?


di Simone Pilotti

 


 I mitici Sixties erano superati da un pezzo e con loro se n’era andata la speranza di cambiare la società a suon di motti pacifisti sulle note di Beatles, Rolling Stones e Jimi Hendrix vari. Le adunate di hippies e i mega-concerti stile Woodstock erano ormai dimenticati. La seconda metà degli anni ’70 riuscì ad esprimere solamente il crescente disagio giovanile, le forti tensioni sociali e un pessimismo diffuso. A Londra, in particolare, tutto questo si sommava a una pesante disoccupazione e una crisi economica che sfociava molto spesso in scontri di piazza. I motti ottimisti del decennio precedente venivano sostituiti da un drastico “No Future” che sintetizzava al meglio le aspettative della nuova generazione.
 
Proprio da queste rovine nasce uno dei dischi più rivoluzionari e innovativi del rock: Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols, ovvero il primo album di quattro ragazzacci londinesi che sfruttano la musica per urlare tutto il loro disprezzo, la rabbia e l’odio verso la società contemporanea. Quattro ragazzacci che rifiutano tutti i virtuosismi musicali dei generi precedenti, sfregiano il rock riducendolo ad una semplice chitarra distorta (rabbiosa, anche lei). Semplicemente, quattro ragazzi punk.
 
Il 28 ottobre 1977 viene pubblicato l’album d’esordio dei Sex Pistols. L’origine del disco, però, si colloca molto tempo prima, tra il ’73 e il ’74, quando Paul Cook (batterista) e Steve Jones (chitarrista) formarono una band che cambierà diversi nomi prima di arrivare al definitivo Sex Pistols. Questo nome nasce dal negozio d’abbigliamento di nome “Sex” di comune frequentazione per i membri della band, di proprietà di Malcolm McLaren, personaggio celebre per la sua cupidigia di denaro che sarà decisivo nella rovina della band a pochissimi anni dall’esordio discografico. Proprio da clienti della boutique vengono pescati il bassista originario, Glen Matlock, e il cantante John Lydon, soprannominato “Rotten” (“marcio”) per il suo aspetto tutt’altro che raffinato. Così, nel 1975 la band, assunta una formazione definita, intraprende una serie di esibizioni live che spesso vengono interrotte a causa della loro volgarità, e che tuttavia accrescono la celebrità del quartetto nell’ambiente londinese. I Sex Pistols vengono, infatti, messi sotto contratto dalla EMI: la casa discografica pubblica i primi singoli del gruppo, che raggiungono repentinamente le vette delle classifiche di vendite, e ne promuove l’Anarchy Tour, in cui la band diventa famosa per le sue provocazioni e per il suo profondo anti-conformismo.
 
Anche questi live, però, dal punto di vista organizzativo sono un disastro: concerti interrotti o addirittura annullati prima dell’inizio, spesso da autorità locali che osteggiano fortemente la band di Malcolm McLaren. Tutto questo porta la EMI ad interrompere la collaborazione con i Sex Pistols, che a loro volta firmeranno un nuovo contratto con la A&M Records che, però, dura ancora meno di quello precedente, soli sei giorni. Nonostante i Sex Pistols si dimostrassero catastrofici sotto questi aspetti, la loro fama cresceva e il loro modo di suonare, così innovativo e fuori dagli schemi, era sempre più apprezzato dalle nuove generazioni.

L’album raccoglie dodici tracce tra singoli usciti già gli anni precedenti e pezzi nuovi. Holidays in the Sun rompe il ghiaccio, raccogliendo le impressioni che ebbe la band durante un viaggio in una Berlino ancora divisa dal muro. Si susseguono, poi, canzoni in autentico stile punk, nei testi e nelle sonorità, fino a uno dei brani più celebri del disco: God Save The Queen. Ovviamente da una band come i Sex Pistols non ci si aspetta un elogio a sua maestà: infatti si tratta di una canzone di condanna, più che mai ironica, in cui Lydon demolisce le autorità inglesi. Dopo altri due intermezzi puramente punk, Problems e Seventeen, troviamo il capolavoro del disco, Anarchy In The UK, che in realtà era già stato pubblicato un anno prima e che aveva rappresentato fin da subito il manifesto artistico dei Sex Pistols. Il riff della chitarra accompagnato da una batteria serrata fa da sottofondo alla voce irriverente dell’anticristo Lydon (“I am an antichrist” le prime parole della canzone), creando così una delle canzoni punk meglio riuscite di sempre.
 
A questo punto si scopre uno dei punti di forza del disco: pur ripetendosi lo stile musicale in modo apparente monotono, le ultime tracce non sono affatto pesanti e soporifere, tutt’altro. L’album scorre tra l’insolenza di Submission e la derisione del fenomeno della disoccupazione di Pretty Vacant fino alla ciliegina sulla torta rappresentata l’ultima traccia, EMI che, come è facile immaginare, esprime il punto di vista di Lydon & Co. sulla risoluzione del contratto con la casa discografica.
 
Il disco ha sùbito un impatto pazzesco sulla musica fiacca di fine anni ’70. E così, mentre l’hard-rock e i suoi pionieri (Led Zeppelin su tutti) non trovano il modo di rinnovarsi, il progressive ha esaurito la sua vena creativa e vede molte band del genere sciogliersi o, peggio, avvicinarsi al pop (Genesis, Van Der Graaf Generator come esempi), molti giovani scelgono il punk. Non a caso i Sex Pistols vengono presi come modello da un numero sempre crescente di gruppi. Joe Strummer e Mick Jones, spina dorsale dei Clash, ammisero di aver deciso di suonare musica punk proprio dopo aver assistito a un concerto delle pistole sexy. Ma anche band inglesi come Damned, Stranglers e i PIL, gruppo fondato da Lydon dopo la fine dell’avventura dei suoi Sex Pistols.
 
Nei mesi prima della pubblicazione del disco, la band decide di cambiare bassista, optando per un altro frequentatore del negozio del manager McLaren, il leggendario Sid Vicious. In realtà Vicious diventò essenzialmente un’icona punk, visto che non imparò mai veramente a suonare il basso; durante i live, infatti, fa solamente finta di suonare e durante le registrazioni di Never Mind The Bollocks viene richiamato Matlock come bassista.
 
Quello che seguì fu il lento declino. I concerti del tour, che avrebbe dovuto promuovere ulteriormente l’album, si chiudono sempre più spesso con scontri e mega-risse, fino all’ultimo concerto che si tiene negli USA nel gennaio del 1978.
 
Never Mind The Bollocks dunque è il vero sunto di tutte le vicende del gruppo. Questo album riesce a raccogliere e mescolare al meglio gli sfoghi di tutta una generazione, i concerti ostacolati in ogni modo dalle autorità, il desiderio di abbattere tutto quello che gli hippies speravano di cambiare, le creste colorate e i vestiti strappati, la boutique di McLaren, i denti marci di Lydon e un po’ di sano nichilismo. E’ tutto lì dentro, è tutto dentro quel rock straziato, le chitarre distorte, le vocali urlate e i riff di basso di Sid Vicious. Questo disco è il punk.



Tags: anarchy in the UK, god save the queen, Never Mind the Bollocks, punk, recensione, Sex Pistols, Simone Pilotti,
13 Novembre 2012

Oggetto recensito:

Sex Pistols, Nevermind the bollocks. Here’s the..., 1977, Virgin Records

 

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