Londra anni '70: nel bel mezzo della guerra fredda la giovane e bella Serena Frome viene incaricata di sedurre e ingannare uno scrittore squattrinato per conto dell'MI5. Ian McEwan torna con un romanzo che è storico, spionistico e romantico in una volta sola
di Giuseppe De Marco
Nella difficile vita del lettore (difficile, sì. Selezionare un libro che meriti il tempo speso a leggerlo, tra i milioni di testi in circolazione, non è forse un’attività di tutto rispetto?) non capita spesso di venire incoraggiati quasi simultaneamente, da fonti diverse e lontanissime tra loro, alla lettura di tre libri: una struggente storia d’amore, un’avvincente spy story e un genuino spaccato sulla Guerra fredda nell’Inghilterra degli anni ’70. E visto che i tre libri in questione sono in realtà uno soltanto, ce n’è abbastanza per lasciarsi andare alla lettura dell’ultimo lavoro di Ian McEwan, già acclamatissimo autore di Espiazione (al netto delle polemiche sul presunto plagio, peraltro risibili) oltre che di almeno una mezza dozzina di altri libri di successo.
E dunque eccoci alle prese con una Londra turbolenta a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, dove la giovane Serena Frome, bella e intelligente figlia di un pastore anglicano, si ritrova a lavorare per i servizi di controspionaggio di Sua Maestà, per gentile intercessione del suo amante, un anziano e fascinoso professore di storia che scompare poi misteriosamente dalla sua vita. Dopo un noioso apprendistato tra le scartoffie dell’archivio, Serena viene coinvolta in un programma di proselitismo culturale in chiave antisovietica: un esperimento di quella Guerra Fredda culturale che effettivamente venne combattuta con armi ambigue nei decenni di scontro frontale tra le due superpotenze. Il suo compito sarà quello di convincere un giovane promettente e squattrinato scrittore a lasciarsi finanziare per due anni a spese di una fantomatica Fondazione Freedom International, dietro la quale si cela in realtà la longa manus dell’MI5. Lo scopo è talmente semplice che in effetti non si capisce perché mai ci sia bisogno dei servizi segreti: dare libero spazio alla propria creatività letteraria e contribuire così a dimostrare che la libertà in Occidente vale più di mille false promesse di un paradiso comunista in terra. Il gioco funziona. Il giovane Thomas Haley si lascia agevolmente convincere e si lancia così in una nuova prolifica attività di scrittore, che ben presto si trasforma anche in una storia d’amore con la spia in incognito.
La storia principale segue il suo prevedibile climax. L’amore, il successo, poi l’inganno svelato. Il tutto condito da torbidi intrighi e manovre di burocrati loschi e fumosi (anche perché perennemente intenti ad aspirare nicotina). Fino al finale a sorpresa che, con un bel colpo di genio narrativo, dà una brusca sterzata al racconto che altrimenti si chiuderebbe per la verità senza troppa lode e infamia. E dà anche il senso ultimo di un romanzo che è in realtà una storia di più storie, legate insieme da un personale omaggio dell’autore alla lettura e al rapporto tra scrittore e lettore e reso ancor più evidente dai numerosi riferimenti autobiografici sparsi nel racconto. È il tentativo di andare oltre la storia vera e propria e costruire qualcosa di più elaborato, con l’obiettivo forse di soddisfare anche i palati più esigenti. Che l’esperimento sia o meno riuscito è questione, come sempre (e per fortuna), anche di gusti personali.
McEwan non è tipo da indulgere più di tanto in brio ed ironia (“Ian Macabre”, veniva chiamato per lo stile cupo dei suoi primi romanzi gotici). La sua prosa è curata e asciutta come un piatto di pasta fatta in casa con appena un filo di condimento. Ne apprezzi le fattezze e l’aspetto; intuisci il meticoloso lavoro artigiano che c’è alle spalle; assapori il gusto di un prodotto genuino. Ma poi alla fine ti lascia con un sorriso a metà e in dubbio se ritenerti sazio o meno.
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Ian McEwan, Miele, Einaudi 2012, p 368, 20 euro
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