Bennett Miller, il regista di Truman Capote - a Sangue Freddo torna con Moneyball, un film "agonistico" che vede un Brad per niente glamour nei panni del manager di un team di baseball non proprio brillante. Assieme a un neolaureato in economia poco pratico di campi sportivi troverà la formula matematica per farlo funzionare
di Marinella Doriguzzi Bozzo
I nomi di Frederick Taylor, Henry Ford, Kurt Levin, Rensis Likert sono poco conosciuti dal grande pubblico italiano. Eppure,come faceva notare recentemente il sociologo Domenico De Masi, la scienza dell’organizzazione e gli studi sulla leadership sono fra le più interessanti conquiste culturali del 900. Relativamente neglette da noi e alla base, per esempio, del tanto dibattuto naufragio dell’isola del Giglio: pessima selezione del comandante e dell’equipaggio, processi e norme organizzative labili, o disattese e comunque non controllate, in nome della precaria e sempre soggettiva pratica empirica. Peccato che tanta incuria nei confronti dell’argomento non riguardi tragicamente soltanto un microcosmo di 4.000 persone a bordo di una nave, ma qualsivoglia ente, organismo o comunità, sotto forma di gruppo costituito, così come di azienda o di stato.
Nel caso del nostro film, parliamo di una squadra di baseball - gli Oakland Athletics - e l’idea luminosa che lo anima e che lo fa positivamente deragliare dal lungo elenco delle solite pellicole di genere (almeno una quarantina solo su questo sport) è proprio quella pertinente sia alla scienza organizzativa che alla tipologia di leadership.
Billy Beane, il general manager della squadra - un buon Brad Pitt, espressivo e poco glamour - sa di non poter competere con avversari non solo più blasonati, ma, soprattutto, molto meglio equipaggiati sul lato economico. Con un’intuizione sovversiva e felice, decide quindi di farsi coadiuvare da un giovane e misconosciuto laureato in economia, che osserva il baseball da un punto di vista non solo statistico, ma scientifico tout court. Dapprima, l'accoppiata si scontra con tutte le gerarchie del gruppo, dai selezionatori all'allenatore, che rifiutano di aderire alla nuova filosofia, con le stesse parole che per un'intera vita lavorativa ci siamo infallibilmente sentiti dire dalle tutte le aziende di volta in volta interessate: "il nostro mondo è particolare, la nostra esperienza in tal senso unica, abbiamo da sempre fatto così", eccetera eccetera. Prendendosi a tal punto per altri da sé, da non partire dai vincoli dati, e perciò continuando ad inseguire - nella fattispecie - il mito delle star di prima grandezza, che tuttavia la proprietà della squadra non può permettersi. Sempre per non affrontare il cambiamento, che spesso altro non è che il ribaltamento di un'ottica data per acquisita.
Ma l'idea di Beane-Pitt è un'altra, reclutare giocatori poco quotati sul mercato e ancor meno mitizzati dal pubblico, sulla base di un concetto olistico: la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore della addizione delle prestazioni prese singolarmente. Purché opportunamente allenate e organizzate. Puntando così all'idea di squadra corale o tayloristica (da noi spesso scambiata con il concetto di lavoro parcellizzato ed alienante), che prescinde dall'eccellenza di uno o due singoli, intorno ai quali ruotano dei gregari più o meno responsabilizzati. Nonché mutando non solo la consueta strategia, ma addirittura l'obiettivo di fondo: comprare - nel senso competitivo - la vittoria, e non i giocatori.
Inutile raccontare come andrà a finire, perché il film incrocia con la prima, brillante idea di base, anche la vicenda privata di un leader che tale non è per natura. Come dire l'idea vincente affidata ad un individuo che, per lunga storia personale, soffre della sindrome del perdente. Intorno, tanti piccoli dettagli spiccioli di vita intima e sportiva, tali da consentire comunque il godimento di un gioco spesso oscuro nei suoi risvolti tecnici opportunamente declinato sia sul campo che, soprattutto, negli spogliatoi, negli uffici, al telefono, psicologicamente.
E il focus sul retroscena funziona bene cinematograficamente, seppur con qualche pecca: l'eccesso di lunghezza, non tanto inteso come mera durata in minuti, quanto come accumulo di qualche risvolto superfluo sotto il profilo drammaturgico; oppure un tocco di troppo di antiretorica, che di fatto finisce per essere ugualmente retorico - perché in fondo c'è sempre il credo americano della prossima opportunità o dell'autoredenzione.
Incerti se aderire al ritorno dell'Iron lady, con Meryl Streep che tatchereggia, o correre il rischio dell'ennesimo film sportivo, siamo stati premiati da questa seconda scelta. Capita raramente di assistere ad uno spettacolo che sviluppi bene un'idea originale, sia sotto il profilo della regia, che della sceneggiatura che dell'interpretazione, con il lancio anche di un pingue Jonah Hill - il giovane laureato - che s'insedia d'autorità nella galleria degli attori secondari di spicco. E che riesca ad intrattenere comunicando nel contempo una serie di esempi utili per la vita quotidiana (anche una singola famiglia è a suo modo un'azienda, a maggior ragione in tempi di crisi), nonché a toccare tasti socio-economici generali di grande attualità, purché si sia disponibili ad accogliere e decodificare le metafore proposte, riflettendo almeno un po' sul senso di aggregazione e di comunità organizzata.
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Moneyball - l'arte di vincere, di Bennett Miller, USA 2011, 126 m
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