Il Presidente che abolì la schiavitù raccontato da Steven Spielberg e interpretato da Daniel Day Lewis. La figura del padre della patria viene divisa tra sfera pubblica e quella privata, in una quasi agiografia dove, più che l'afflato epico, possono i dialoghi. Una riflessione sulle grandi personalità americane che strizza l'occhio al presente
di Marinella Doriguzzi Bozzo
La Storia ha un grande pregio, sotto il profilo dell'intrattenimento: si può inventare, o meglio, reinventare esattamente come la fiction. Il segreto è giocare di plausibile astuzia negli interstizi del "vero documentato", tanto anche i testimoni diretti dell'epoca, se fossero ancora vivi, esporrebbero interpretazioni diverse, magari clamorosamente contrastanti. L'importante è essere avvincenti, credibili all'interno di una lettura data, drammatici quel tanto che consente di sorvolare sulla quotidianità per concentrarsi sugli avvenimenti salienti, e poi via con il trucco e le scenografie suggestive, avendo magari l'accortezza di seminare nel passato cospicue tracce delle motivazioni o delle esigenze del presente.
Steven Spielberg ritiene di scegliere come "grande interstizio" il percorso politico inerente l'inserimento nella costituzione americana del tredicesimo emendamento, volto ad abolire la schiavitù anche in funzione del termine della guerra di secessione in atto. I primi dodici articoli del Bill of rights sono lontani più di mezzo secolo, così come ormai alle spalle è quasi tutto il viaggio umano e politico di Lincoln: le origini contadine, la pratica legale, gli iniziali passi pubblici, la seconda elezione come presidente repubblicano.
Alla opzione epica della guerra fra nordisti e sudisti (che tanta parte ha nella filmografia americana insieme al western) si decide di anteporre una dimensione etica: le armi, le divise, i cavalli degli spazi liberi vengono sostituiti con la guerra delle parole, in interni così bui da graziare eventualmente anche il più sprovveduto degli scenografi, mentre il profilo affaticato del presidente si staglia in solitudine contro una folla di personaggi non sempre facilmente decifrabili.
Scorre così la prima buona metà del film e sfidiamo chiunque a non agitarsi per la lunghezza e la fatica di una rappresentazione filologicamente documentata, ma irta di difficoltà per lo spettatore - che non sempre capisce chi è chi e che cosa vuole. L'unico elemento di fondo che si comprende (soprattutto se si sa a priori) è che un primo passo propedeutico Lincoln l'ha già fatto con il Proclama dell'emancipazione, che conferisce la libertà solo agli schiavi nelle aree dalla Federazione non controllate dall'Unione. Ma molto è ancora da costruire e mancano parecchi voti. La proposta repubblicana, per passare, necessita della "defezione" di almeno quindici membri del partito democratico, contrario all'emendamento.
Questo quindi non è tanto un film sul personaggio di Lincoln, quanto su una visione della storia e su un exemplum di quel pragmatismo americano (che in Europa si potrebbe chiamare machiavellismo protestante) necessario per conseguire un obiettivo ritenuto buono e giusto anche mediante pressioni poco ortodosse, che la profonda, pacata, temeraria mente speculativa del presidente-avvocato dipana come una matassa irta di dubbi, sofferenze, insidie.
Fortunatamente , a partire dalla seconda metà, l'estenuante pellicola riprende quota e riannoda i fili, perché affida l'elemento drammatico - e inventivo - al vissuto personale di Lincoln (grande raccontatore di apologhi) e della moglie. Compaiono, sintetizzate, le tracce di un rapporto famigliare complesso, sacrificato in parte al pubblico dovere, in parte ad una fatalità che tuttavia può suonare come una nemesi: solo uno dei quattro figli varcherà la soglia dell'infanzia o della giovinezza, per non parlare della pistola di John Wilkes Booth ormai in agguato dietro la tenda del Ford's Theatre...
Pochi minuti prima della morte del personaggio, il film avrebbe potuto chiudere efficacemente; invece si concede un altro inopportuno rabbocco didascalico, tornando indietro nel tempo. E qui si arriva al recupero della dimensione epica secondo un'operazione che, in tempi difficili, pare soprattutto affidata ad un composito messaggio: la necessaria presenza sul palcoscenico della storia di personalità carismatiche e integerrime che credono in se stesse e nella collettività; l'obbligo di agire coraggiosamente nel presente per poter sperare nel futuro; la capacità di comprendere che i nostri atti ci seguono. E se il domani non è decifrabile, meglio non porsi interrogativi prematuri, e agire passo dopo passo, con semplicità e nell'interesse di ognuno. Gli Stati Uniti hanno saputo farlo e potrebbero essere chiamati a ripeterlo, magari - sembra suggerire Spielberg - tramite Obama.
L'argomento è quasi intimidatoriamente serio ed alto. Memoria e orgoglio delle radici sane è un corroborante indispensabile di qualsivoglia educazione civica e civile, però meglio affidabile ad un testo scolastico di lusso che non ad uno spettacolo magniloquente ma trattenuto, diligente ma ambizioso, remoto eppure attuale, in grado di edificare gli animi senza però emozionarli. Così come l'interpretazione di Daniel Day-Lewis: audace, di una maniera un po' snobistica, in simbiosi con l'agiografia, ma priva di vere illuminazioni e di quell'effetto trascinante cui indubbiamente tutta l'operazione mira, contando sulla ricchezza dei mezzi, dei nomi, del tema e della sceneggiatura. Una grande lezione blasonata al mondo politico di oggi e ai suoi cittadini, anche se non sempre la nobiltà è sinonimo di arte o anche solo di coinvolgimento filmico.
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Lincoln, di Steven Spielberg, USA 2012, 150 m
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