Il discorso del re racconta la battaglia di Giorgio VI, padre dell'attuale regina d'Inghilterra, contro la sua balbuzie. Intorno, l'ascesa del nazismo, l'incombere della guerra e le trame di corte. Tom Hooper dirige con grazia bravi attori, ma The queen resta un modello lontano
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Un tremolante filmato color seppia inquadra Hitler che azzanna il cuore delle folle con le parole e con i gesti. Colpita, l’attuale regina Elisabetta II d’Inghilterra, ancora infante, domanda al padre, l’appena nominato re Giorgio VI :"Papà, cosa dice?" E lui, afflitto da una terribile disfluenza verbale - vulgo balbuzie - risponde malinconico: "Non lo so, ma lo dice bene".
E’ il momento chiave del film: da un lato la radio della Bbc che trasmette per la prima volta nella storia dei media una incoronazione in diretta, dall’altro lo scoppio della seconda guerra mondiale, che necessita di saper parlare alle masse. In mezzo, un secondogenito schivo che si è sposato per amore, destinato dal fato ad essere un buon re, e un eccentrico logopedista australiano, che cerca di ricondurlo alla parola pubblica con metodi poco accademici.
In tempi di inflazione degenere del chiacchiericcio, un discorso sulla comunicazione. Ma non soltanto quella ufficiale, bensì anche quella di stampo intimo fra un paziente e un medico, che interagiscono psicologicamente in termini di animo da due sponde socialmente opposte. L’uno, sfiduciato e quindi ostile a ulteriori possibili tentativi fallimentari; l’altro, capace di farlo uscire dalle rigidità di una etichetta che l’ha soffocato fin da piccolo. Una sfida di due volontà, che rimarranno poi alleate per una vita. Nonché una favola buona con tocchi freudiani a poco prezzo, ma rispettosa della Storia, con una sceneggiatura intelligente nello spunto e elegante nello svolgimento. E una regia che ha, più che dei difetti, le debolezze dei suoi stessi pregi.
Pregi che si riscontrano nel tratteggio dei due caratteri, nella disinvoltura pacatamente brillante dei dialoghi a tempo, nella bravura - seppur un po’ accademica - degli attori, e nel modo di seguirli con una camera fissa, che talvolta li deforma leggermente, come pesci che parlino per bolle all'interno di un'emblematica boccia di vetro. Intorno, la casa reale con i suoi problemi dinastici e amorosi (l'abdicazione di Edoardo VIII per sposare Wallis Simpson, pluridivorziata americana dalla seduttività navigata), e l'incombere della guerra, con le dimissioni di Chamberlain e l'avvento di Churchill come primo ministro, ma accennati così, come un contorno leggero in un pranzo di magro. E la famiglia, ferreamente sorretta da quella Elisabeth Bowes-Lyon che campò ultracentenaria come regina madre, vero simbolo indimenticato di fermezza contro il nemico, in mezzo a una nobiltà non estranea a simpatie naziste. Con qualche incursione in tempi più spregiudicati, grazie alla fuggevole apparizione della coppia scandalo, meglio nota al secolo mondano come duchi di Windsor. E poi le scenografie a marcare gli interni: l'ambiente borghese e quello ufficiale, quello ecclesiastico e quello radiofonico, stilizzati con grazia, involucri appena abbozzati a delineare con efficacia un territorio.
Debolezze, invece, riscontrabili nell'eccesso di sintesi, quando la grande storia, senza essere alterata, si fa comunque riassunto per accenni, e tutto scorre fluido come nei saggi di danza ben impostati, conclusi con l'inchino. Un apologo circoscritto, che segue un filo conduttore preciso, a costo però di mettere in ombra molti dei colori del quadro d'insieme. E la memoria corre ad un altro film abbastanza recente, più difficile e più riuscito, perché più coraggioso. Alludiamo a The queen, di Stephen Frears (2006) giocato allo stesso modo sul filone dell'intimismo rispetto all'ufficialità e alla storia. Basti in questo senso pensare alle somiglianze fra attori e personaggi veri: in The queen disegnati per valenze simboliche, qui invece ricalcati su approssimazioni fisiognomiche.
In sintesi, un film che può piacere molto, perché dispiega garbo, lucidità, ironia, senza sbavature né cadute di ritmo. E che ha la qualità dei compiti riusciti, racchiudendo però in sé una curiosa contraddizione: uno stile bon ton un po' fuori moda affiancato ad una attualissima inclinazione al semplicismo, inteso come facilitazione divulgativa.
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IL DISCORSO DEL RE, di Tom Hooper, Gran Bretagna e Australia 2010, 111 m
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