Il piccolo Simon ruba ai ricchi, quelli che in alta valle ci vengono a sciare, per dare ai poveri, cioè a chi sta in basso, che poi sarebbero lui e Louise, sorella molto poco "maggiore". Sister di Ursula Meier, già vincitore di un Orso d'argento a Berlino, non è solo un film sulla "lotta di classe individuale", ma anche un accorato ritratto di famiglia
di Gianpaolo Fissore
Tra le Alpi, nella stagione invernale, una funivia collega due realtà agli antipodi: in alto, al punto di arrivo, una stazione scistica modernamente attrezzata; in basso, alla base, un anonimo fondovalle urbanizzato.
In alto, incorniciato tra le vette, c’è il paradiso dei vacanzieri della neve, opportunamente attrezzati, abbigliati e abbronzati. In valle la neve si fa fango, il fianco della montagna è squarciato dalle ruspe, le auto corrono e inquinano, la vita costa cara, ancor più se manca il lavoro, e le mura domestiche stanno dentro un palazzone chiamato “la torre”, che reca le stimmate della cementificazione popolare. Chi sta in alto ha le tasche gonfie e può probabilmenete togliersi tutti gli sfizi che vuole. Chi abita in basso si fa i conti in tasca ogni giorno.
Eppure c’è qualcosa che può temporaneamente azzerare le differenze. E’ quell’abbigliamento da signori della neve, tute hi-tech, casco da alta velocità e occhialoni da sole, dentro il quale può conservare l’anonimato chinque, anche uno che sta in basso e che per po’ si mescola alla folla dei più fortunati, per becchettare quà e là, ricavare il necessario per vivere, o meglio per sopravvivere.
E’ scaltro e sicuro di sé il piccolo Simon (Kacey Mottet Klein), protagonista di Sister, secondo lungometraggio della quarantenne franco-svizzera Ursula Meier, vincitrice dell’Orso d’Argento all’ultimo festival di Berlino. Occhi da faina, fisico segaligno, ancora da rimpolpare di muscoli, si è guardato intorno, ha capito il gioco, ha misurato il rischio, è diventato un pendolare tra il parco giochi dei privilegiati e la pianura dolente dove troneggia il suo casone popolare. Si è inventato un quotidiano lavoro da svolgere in alta quota, muovendosi tra gli sciatori nullafacenti come fosse uno di loro, per portare via, ogni volta, qualcosa che apparteneva a loro. Merce mista, di stock, come la chiama quando cerca di piazzarla. Ski da slalom ultima moda, capi d’abbigliamento firmati, e tanti panini imbottiti, utili anche quelli, perché se la merce più pregiata, rivenduta a basso costo, servirà per comprare la pasta o la carta igienica, qualcosa, in pausa lavoro, bisogna pur mettere nello stomaco.
Simon è un ladruncolo, meticoloso e metodico. Una piccola volpe che si muove in un ricco, distratto pollaio. Senza rimorsi, perché è convinto, né gli si può dar torto, che a quelli che stanno su ci vorrà un niente per ricomprare ciò che è stato loro rubato. Per lui invece sgattaiolare e portar via è un’operazione necessaria, da inserire alla magra voce entrate di un bilancio familiare al quale è l’unico a contribuire.
Perché, e qui viene il bello, Sister non solo è un film sulla lotta di classe praticata a livello individuale, un film che, come recitano le motivazioni del premio berlinese, “conduce un’analisi brillante del rapporto tra ricchezza e povertà”. Già questo lo rende interessante, ma non è che la cornice.
Quando Simon torna alla base deve occuparsi della persona con cui convive, Louise (LéaSeydoux), la “sorella” maggiore che dà il titolo al film. Sono soli al mondo, questi due e, in teoria - o secondo legge di natura - dovrebbe essere Louise a prendersi cura del più piccolo e non viceversa, ma per come è messa la ragazza, dissennata e anaffettiva, è assai improbabile che questo succeda. E dunque il film, da racconto sull’arte di sopravvivere, diventa, con un non rivelabile colpo di scena, il racconto su una “famiglia” di anagrafe incerta, tanto sgangherata nelle fondamenta quanto disperata nella ricerca di legittimarsi come tale. Sembra indomito il piccolo Simon nell’attrezzare la sua solitudine, nel chiamarsi a compiti più grandi di lui, nell’insegnare un lavoro all’inaffidabile sorella. Vorrebbe essere un adulto e ma è soprattutto bambino nel quale convivono un incorreggible vizio e un’incontenibile domanda d’affetto.
Sulla scia, nei contenuti e nello stile, del cinema dei fratelli Dardenne, Ursula Meier realizza un film di quelli che non si dimenticano facilmente, forse semplificando eccessivamente i contesti in cui si muovono i personaggi, ma non trascurando i particolari, nelle inquadrature degli sguardi, nella rappresentazione dei comportamenti e dei gesti ordinari di una quotidianità a cui sembra preclusa ogni speranza di cambiamento, riscatto sociale e redenzione.
Mette in primo piano, oggettivandola il più possibile, l’avventura di un invisibile che non suscita empatia. Ma non si può non stare dalla parte del piccolo ladro - o "parassita sociale" che dir si voglia - soprattutto quando egli appare più disarmato e indifeso, comunque ostinato nella sua richiesta di affetto non corrisposto. Così è nella scena del commiato, quando la discesa a valle della funivia, forse l’ultima dell’annata sciistica, scandice inesorabile il trascorrere di un tempo che sembra rifiutargli il futuro.
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Sister di Ursula Meier, Francia Svizzera 2011, 100 m
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