Non ha più lo stesso fascino "rapace" il personaggio interpretato da Richard Gere ne La Frode. Un po' perché alle nefandezze dei grandi finanzieri ormai siamo abituati e un po' perché il regista Nicholas Jarecki abbandona presto l'interesse per il mondo del business per ricucire attorno al suo protagonista il solito, vecchio costume da "American Gigolò"...
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Prima o poi arriva l'età in cui è necessario scegliere se crescere o invecchiare; solo che invecchiare è più facile e non sono i capelli bianchi a rendere stagionati, sono gli anni: Richard Gere ha una candida chioma invidiabile, si muove ancora con quel modo di camminare curiosamente concentrato intorno alle spalle che lo ha reso per sempre elegante a partire da American gigolò (1980) ma gli occhi sono due fessure berlusconiane, e il naso in crescita libera gli ombreggia l'intero volto, senza aumentarne l'intensità espressiva. La sua presenza fisicamente datata non serve a salvare un film altrettanto antico, che solo con molta buona volontà si potrebbe definire classico e che ruota intorno a lui tentando di rinnovare almeno in parte il miracolo di seduzione di massa di Pretty woman (1990).
La storia, lineare come un'autostrada, sfida le lusinghe attuali dei film di genere per sgranarsi minuto dopo minuto secondo tutte le convenzioni della collaudata formula potere-fascino-patriarcato- ricchezza avida-amoralità recidiva-castigo senza pentimento. Non che si senta la mancanza dei risaputi artifici fotografici e struttural-temporali di cui oggi si ammanta la filmografia mediocremente tradizionale per confondere gli ingredienti e insaporire il brodo, ma siamo lontani dalla esperta misura di Michael Clayton (2007) o dalla mirabile architettura in forma di fiore di Onora il padre e la madre (ancora 2007) così come dalla trascinante veemenza impastata di valuta, spietatezza e arrivismo portata all'attenzione del largo pubblico con Wall street (1987).
Gli ingredienti sono gli stessi, ma i giochi di chi genera denaro con il denaro sono ormai tristemente noti e non godono più della novità dello yuppismo o degli abissi non ancora popolari della grammatica tecnica di Margin call (che abbiamo recensito qui). Più che occuparsi di una disamina dei costumi, il film cerca in qualche modo di collocarsi dalle parti del marchingegno narrativo a tenaglia, che oscilla continuamente intorno all'alternanza di perdizione e salvezza, sino al risultato ambiguo del finale, anch'esso dicotomico come un'aporia.
Volendo individuare un modello di riferimento, siamo sicuramente dalle parti de Il falò delle vanità di Tom Wolfe (1987) che ha creato una sterminata genia di epigoni e che, come in questo titolo, mette in gioco l'intreccio tra frode economica e delitto privato: un finanziere di successo maschera le sua responsabilità nel tipico incidente d'auto da momento extraconiugale di prammatica, a cui si aggiunge l'occultamento di una voragine bilancistica proprio mentre cerca di trarre il massimo profitto dalla vendita della sua società.
Intorno le stereotipate ma sempre fascinose lusinghe di un mondo esclusivo, in cui glistilizzati arredi bianchi ed écru occupano lo stesso spazio di un clan famigliare composto dalle solite figurine: una moglie tradita, consapevole ma connivente, nonché antica compagna dei giovanili tempi di bolletta; una figlia in gamba e un figlio incapace in omaggio alla realtà dei tempi; una giovane amante a cui Laetitia Casta porge solo la sua presenza di ex indossatrice; teneri nipotini anonimi che soffiano su torte trionfanti; avvocati, certificatori, intermediari, negri riconoscenti da ricattare ed usare, poliziotti più animati dalla rivalsa classista che non dall'amore per il dovere e la giustizia. E poi il tempo, sempre a prova di infarto e sempre troppo poco per presenziare a tutto, in funzione del piacere come dell'interesse.
Non ci sono dubbi o sfumature umane che scontornino in modo drammaturgico le psicologie dei vari interpreti, tutti asserviti come le rotelle di un ingranaggio al meccanismo del racconto e tutti disegnati con tratti accademici per la serie " i ricchi non solo piangono, ma sono anche prigionieri solitari". Spadroneggia la mera trama, scopiazzata ma ingegnosamente attenta, mentre i modestissimi dialoghi sono a sorpresa ricavati di peso da una pellicola che non c'entra niente, ossia Love story (1970):"amare significa non dover mai dire mi dispiace, amare vuol dire arrivare puntuali "... sommati ad altre banalità aforismatiche del genere, che suonano come una colonna sonora involontariamente parodistica.
Pubblico attempato e concentrato sul plot (che rimane comunque il punto qualificante di un film di mero intrattenimento) nonché desideroso di verificare se un idolo coetaneo abbia ancora qualche cartuccia al suo attivo. La risposta è sì, benchè in maniera equivoca, perchè Richard Gere è invecchiato ma non è cresciuto e, pur disponendo di classe e di attrattiva, proprio non riesce a incarnare la sulfurea indisponenza di Michael Douglas, seppur in una versione di edulcorati cinismi sostenuti con retorico bon ton.
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La Frode di Nicholas Jarecki, Usa 2012, 107 m
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