Il geniale artista dei travestimenti in Sillabari interpreta le aspirazioni piccolo borghesi dei personaggi parisiani
di Igor Vazzaz
È splendidamente doloroso (ri)vedere in scena Paolo Poli, per mille e più motivi. Primo fra tutti l’insufficienza pneumatica del nostro lessico nel poter descrivere, pur approssimando, le mirabolanti dimensioni d’un artista per il quale ogni lemma è già stato speso, ogni attributo bruciato, ogni apprezzamento sfruttato. Quasi trent’anni or sono, Rodolfo Di Giammarco elencava con divertito puntiglio, nell’unica monografia dedicata al professorino che canta (questo sì, misfatto autentico dei nostri studi teatrologici), una pletora d’aggettivi, iperbolico elenco dai toni pseudorabelaisiani, nel tentativo di dar conto degli infiniti cromatismi d’una macchina teatrale abbacinante, Poli-edrica.
Siamo nel 2010 e la musica non cambia: lui, sempre più bello, sempre più bella, là, in un altrove di teatranti che sfuma nel suo farsi, sfugge nel suo darsi, sbianca nella memoria, lambendo con grazia femminina i contorni d’un Novecento passato, ma mai interamente trascorso.
Maestro del répechage poetico e teppista, eccolo estrarre dal suo immenso baule i racconti di Goffredo Parise, due Sillabari (il primo del 1972, l’altro di dieci anni più tardo, premiato con lo Strega), interrotti alla lettera S per “mancanza di poesia”. Dizionari emotivi, sentimentali ma non sentimentalistici: ognuno di questi brevi racconti dal sapore enigmatico, aperti nella sospensione minimalista, dà origine a quadri scenici, per lo più monologhi, in cui l’attore fiorentino scava con la consueta ironia maliziosa, giocando abilmente sulla parola da porgere, il gesto da esibire e, soprattutto, il non detto da insinuare.
Notevole l’equilibrio drammatico di questo spettacolo singolare nella biografia del nostro: a dominare, per una volta, non è la sua ipertrofica vena da front man, il suo incontenibile e variopinto fregolismo innervato di camp, bensì il testo, che costringe la scrittura scenica a una sedimentazione verbale, cui gesti, scenografie pittoriche (di Lele Luzzati, splendide, ispirate a illustrazioni di primo Novecento), costumi magnifici e sontuosi (Santuzza Calì) fanno da perfetto contorno, senza mai esondare.
È così che le stazioni di questo peculiare puzzle drammatico sono caratterizzate dalle voci dei personaggi parisiani, dai loro sogni minimi, da aspirazioni piccolo borghesi, paure e inquietudini pudibonde: Poli in fogge sempre cangianti (e quanto è sapiente il suo pavoneggiarsi a ogni cambio di costume) interpreta indifferentemente uomini e donne (inutile dire in quali vesti risulti del tutto irresistibile), sempre lasciando spazio alla dimensione letteraria dei caratteri, adattando la propria vocazione camaleontica ai protagonisti di queste minute e indecifrabili storie. Ovvio che a trionfare sia ciò che non si dice, gli interstizi di senso che Parise apre in queste vicende minuscole, e che la maestria della recitazione risieda nell’inconsueta misura che l’animale da palco riesce a mantenere con felice costanza. Il prezzo è, forse, quello di una non completa scorrevolezza, poiché l’andamento della messinscena è volutamente paratattico, talvolta sofferente d’un reiterato meccanismo a innesco e arresto ripetuti.
Ottimo oliante dell’ingranaggio è l’apparato coreografico, curato dall’eccellente Alfonso De Filippis, sempre più “secondo”, spalla e aiuto per il maestro oltre la soglia degli ottanta (incredibile ma vero): le ridicolose orchestrazioni midi approntate dalla fedele Jacqueline Perrotin sono le basi per un pot-pourri di canzonette, ora svagate, ora sentimentali, ad abbracciare cinquant’anni di musica, non solo italiana. Esemplare il lavoro di decostruzione semantica operata dall’unione-scontro tra i testi, le musiche (formidabili i suoni, volutamente plastificati e irridenti) e le ambientazioni: una languida e malinconica Arrivederci finisce per risultar malefica nell’addio che un occhialuto borghese in giacca arancione (Poli lui-même) rivolge al prestante operaio in tuta blu munito di bicicletta.
Le parti musicali sono anche occasione di ammiccanti balletti in cui il protagonista assoluto si vede quadruplicato nelle figure di altrettanti giovani e bravi attori, tra cui il già citato De Filippis. In questo senso, la novità è rappresentata dallo spazio crescente appaltato alla destrezza di Luca Altavilla, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco, alla bisogna perfetti cloni poliani, ma ciascuno dotato di piglio e ritmo personalissimo.
I cinque interpreti si palleggiano e dividono numeri e monologhi, così come la girandola di repentini cambi costume, motivo di costante sbigottimento da parte d’un pubblico sin da subito disposto a divertirsi e sorridere. Ed è bellissima la lingua teatrale parlata, proposta, carezzata da questo grande guitto e vedette della nostra scena: un italiano musicale, mai affettato, dotato d’eleganza inimmaginabile dopo decenni di sublingua televisiva.
Del dolore, si diceva: dolore di ammirare un diamante puro e splendente, tanto moderno da far sbiadire l’attualità teatrale e non solo. Perché, ed è questo ciò che imputiamo maggiormente al miglior brillante che abbiamo, è un’onta ch’egli risulti persino, e senza la minima ruffianeria, consolante, rinfrancante, non certo per sua colpa. Ed è con lui, senza troppe sottolineature, senza calcar minimamente mano o voce, che sembra di poter ristabilire qualche punto fermo in un’Italia sempre più greve, sempre più violenta, sempre più intimamente fascista. La gaiezza del suo sorriso linguacciuto e indomito trionfa persino sull’ormai canonica ridda dei bis: in fantasmagorico costume dorato, eccolo porgere un ultimo numero dannunziano, di concerto con i quattro giovin attori. E anche il Vate è sistemato, senza sforzo. Il pubblico plaude, acclama, tributa un’ovazione, per una volta giustificata, all’istrionesco geniaccio fiorentino: lui esce, sorride paziente e poi, con fare platealmente scocciato, invita tutti ad andarsene a casa, una buona volta. Grazie di esistere, Paolo, una volta di più.
Tags: alfonso de filippis, camp, eleganza, emanuele luzzati, goffredo parise, grabriele d'annunzio, Igor Vazzaz, Novecento, paolo poli, sillabari, travestimenti, vedette,
SILLABARI, DUE TEMPI DI PAOLO POLI, DA GOFFREDO PARISE
Prossimamente: Roma, S. Umberto, fino al 24 gennaio; Lamezia Terme, 27-28 gennaio; San Casciano Val di Pesa (Fi), 31 gennaio; Faenza (Ra), 1-3 febbraio; Ferrara, 4-7 febbraio; Copparo (Fe), 10 febbraio; Trento, S. Chiara, 11-14 febbraio; Schio (Vi), 16 febbraio; Trieste, Bobbio, 19-28 febbraio; Colle Val d’Elsa (Si), 9-10 marzo
Goffredo Parise: scrittore e giornalista veneto, maestro nel descrivere la provincia italiana nelle sue sfaccettature più intime; i due Sillabari sono adesso pubblicati dall’editore Adelphi che ha curato pure l’uscita del bellissimo Lontano (2009)
Artisti citati dai fondali di Luzzati: De Chirico, Sant’Elia, Morandi, De Pisis, Savinio, Dalì, Hopper, Mondrian, Ricasso
Pensiero/1: la modernità non ha niente a che fare con la mera cronologia
Pensiero/2: il sogno sarebbe usare Poli per spazzar via tanta volgarità teatrale verniciata di (pseudo)ideologico, sociale, impegnato e disimpegnato, ma lui non si presterebbe mai. E avrebbe, ancora una volta, ragione
Commenti
Invia nuovo commento