La pulzella d'Orleans "messa a nudo" nel claustrofobico allestimento della compagnia Teatro del Carretto (per la riscrittura scenica ad opera di Maria Grazia Cipriani) non considera la Storia ma soltanto la scena. Un'intensa interpretazione di Elsa Boni, per uno spettacolo che ancora aspetta di crescere
di Igor Vazzaz
Teatro come spazio mentale, ossessivo, incavo fantasmatico, aperto alle materializzazioni proiettive del personaggio, frugato, setacciato, messo a nudo nella sua grottesca dimensione di solipsismo senza salvezza. Questa la traccia lungo la quale si dipana la recente poetica del Teatro del Carretto: e non parliamo solo di Giovanna al rogo, ultimo parto della scrittura scenica di Maria Grazia Cipriani (con i consueti apporti di Graziano Gregori per la parte visiva e Hubert Westkemper per quella sonora), ma pure degli immediati precedenti, l’Amleto qui recensito tempo fa e il Pinocchio del 2006, giunto sino al La MaMa Theatre di New York.
Tre spettacoli, tutti caratterizzati da un protagonista unico, solitario e soverchiante, le cui vicende appaiono alla stregua di proiezioni psichiche in uno spazio anch’esso unico, immutabile, benché lacerato da feritoie, passaggi, vie che mai sono di fuga, ma d’immissione, d’oggetti, fasci di luce, caratteri. Fulcro assoluto, il personaggio, il suo onirismo proteiforme, il suo fare della scena fisica, la teoria offerta al pubblico in sala, il proprio palcoscenico allucinato, ove incarnare le misteriose presenze che lo circondano nel reiterarsi dei punti salienti del proprio dramma.
Personaggio che, pur partendo dalla fonte scelta (prima la fiaba italiana più celebre al mondo, poi l’immortale tragedia del prence danese, adesso il processo inquisitorio ai danni della Pucelle d’Orléans), viene distillato, depurato secondo matrici tutte sceniche, concentrando chirurgicamente lo sguardo sul suo essere carne da teatro. La lente inquadra, investe la vicenda, ma, per paradosso, non a questa s’attaglia, privilegiando la focalizzazione, in senso estetico, della teatralità del protagonista.
Si vuol dire che, assistendo a Giovanna al rogo, poco si viene a sapere circa la reale Jehanne di Domrémy, la Guerra dei Cent’anni e persino il testo di Paul Claudel, traccia sorgente, taciuta in locandina, dell’allestimento. Non è della Giovanna storica che si vuol parlare, d’una vicenda declinata all’infinito in cronache leggendarie e interpretazioni tendenziose: le fattezze sottili e atletiche di Elsa Bossi non sono della santa canonizzata nel 1920, ma del suo substrato scenico, la sua essenza di personaggio, la sua capacità di risuonare ancora nel nostro immaginario, collettivo e teatrale.
E non è un caso che l’ambiente in cui troviamo Giovanna e i suoi tre aguzzini (i bravi Nicolò Belliti, Giacomo Vezzani e Andrea Jonathan Bertolai) sia esattamente lo stesso ove lasciammo Pinocchio: spiazzo chiuso e circondato per intero da uno steccato ligneo di assi bruciate; non si può scappare, se non per il rogo. Lo stesso per cui Graziano Gregori ricevette il premio Eti Gli Olimpici del Teatro 2009 per scene e costumi. Le tavole laterali slittano, schiudono fenditure luminose, tagli di luce a scontornare le figure in scena, o vengono trafitte da acuminati spunzoni allorquando Giovanna rivive i momenti di sanguinosa battaglia.
L’illuminazione ha buon gioco, secondo il canonico gusto della compagnia per la plastica corporea: si va da una rarefazione lunare alla marcatura muscolare di memoria caravaggesca, talvolta estetizzante. Presenze malebranchiane, i tre carcerieri s’esprimono in un inglese gutturale e gridato, talvolta reiterando la battuta in un italiano volutamente claudicante: legano la fanciulla, la vessano, la irridono, forti d’una supremazia esibita nei torsi nudi, nell’abbigliamento militare, nella libertà di movimento, ora pelvica ora grottesca. Giovanna resiste, subisce, replica. Una voce fuoricampo, radiofonica e nasale, la incalza e lei, in scena, reitera e raddoppia le proprie battute, pur’esse registrate.
È fiera eppure vessata, sfibrata nel troppo dolore, nel dubbio tarlato che la sfiora, nel pentimento prima accennato e poi ritrattato. E i guardiani da aguzzini diventano strumenti essi stessi della fanciulla, a rivivere gli episodi del proprio passato, reminiscenze dolenti e confuse. Elsa Bossi s’estenua in una recitazione intensa, la voce profonda, rotta, che nel suono ci ricorda certi sintagmi d’una mai dimenticata Alida Valli.
Non si sfugge all’inquisizione: l’incarnato d’una scena metafisica, sfuggente a concretizzazionistoriche (si pensi ai tre uomini, torso nudo, calzoni militari con bretelle e anfibi), permette divagazioni sul tema, nell’insistito ritornare dei versi della Jeanne d’Arc di Leonard Cohen, nell’insinuarsi di musiche ora classiche e immaginifiche ora di lacerti dance d’anni Novanta, ora di radiocronache calcistiche d’un Francia-Inghilterra di trent’anni or sono.
Un’ora e poco più di dramma tirato, tutto da levigare, render fluido (magari nel senso di una recitazione più dinamica) in un rodaggio sempre necessitato dagli allestimenti carrettiani.
Non v’è scampo né salvezza. Il rogo, prima reale, d’un pupazzo nelle mani dei soldati, poi in forma di luce sparata sul pubblico dal fondale aperto, accoglie Giovanna nell’unica possibile uscita, inghiottendola, sottraendola a ulteriori questioni, all’interesse occasionale d’un pubblico che mai potrebbe capirla, al teatro stesso che ne sugge il sangue alla ricerca d’un segreto, d’una chiave ineffabile. Restano interrogazioni sospese, dubbi irrisolti, al termine d’uno spettacolo non banale, ulteriore passo nella direzione di forme recitative - punto notevole per chi conosce i lavori del Carretto. Restano le tre guardie, consumato il supplizio, la musica alla radio, la concitazione d’una cronaca calcistica: tutto scorre, come prima, come se niente fosse accaduto. Come in certi racconti kafkiani, la realtà prosegue volgare e inarrestabile, incurante delle tragedie, piccole e grandi, che s’accumulano in un processo privo di senso. Da vedere, nonostante possa (e debba) ancora crescere.
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Giovanna al rogo, adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani e Teatro del Carretto
Visto a: Lucca, Teatro del Giglio, il 9 dicembre 2011, prima nazionale
Prossimamente: il gruppo sta ancora portando in giro Amleto; per le repliche di Giovanna al rogo si deve attendere (storture ingiustificabili di un sistema teatrale in sofferenza); in ogni caso, tenere d’occhio il calendario della compagnia anche per gli altri spettacoli.
Piccolo goof (termine inglese usato, solitamente nei film, per indicare piccoli errori o incongruenze): i soldati che cantano God Save The Queen, là dove l’inno (per esattezza intitolato God Save the King e, all’occorrenza, adattato al femminile nel testo cantato, ma non nel titolo) entra in vigore soltanto nel 1745 e la sequenza dei regnanti britannici nel corso della Guerra dei Cent’anni (1337-1453) è interamente composta di sovrani maschi
Il Teatro del Carretto: compagnia fondata da Maria Grazia Cipriani, regista, e Graziano Gregori, scenografo, rappresenta una realtà scenica di livello internazionale; il 2013 rappresenta il trentesimo anno di attività; si veda il sito www.teatrodelcarretto.it
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