ECONOMIA
L'eleganza del ricco
Negli ultimi trent'anni, la disuguaglianza tra i primi e gli ultimi non ha fatto che aumentare. La crisi economica poteva essere un'occasione per politiche di redistribuzione in favore dei più poveri. Invece l'unico obiettivo sembra abbassare le tasse ai più facoltosi
di Giuseppe Berta
Le grandi crisi del passato hanno costituito occasioni importanti per ristabilire dei principi di eguaglianza sociale. Così è avvenuto negli anni Trenta, quando sono state messe a punto le politiche di redistribuzione su cui ha poggiato il Welfare State. C’è da chiedersi, dunque, se la crisi attuale farà o no eccezione, in specie se si considera che essa viene dopo un lungo periodo – circa tre decenni – in cui la forbice della disuguaglianza si è aperta ed è cresciuta la distanza fra i redditi.
Al momento, non sembra che ci sia una significativa inversione di tendenza: l’impressione è che il divario nella distribuzione della ricchezza non abbia registrato modificazioni rispetto al periodo precedente. Per quasi trent’anni, in Occidente non sono stati posti argini a una dinamica dei redditi che ha visto accrescersi la divaricazione fra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale.
Nessuna forza politica ha promosso l’idea che il successo non andasse ulteriormente premiato e che si dovesse porre in atto una manovra redistributiva. Anzi, i partiti che, come le grandi socialdemocrazie europee, erano stati artefici delle politiche di riequilibrio sociale, hanno finito di fatto con l’accettare, insieme con la globalizzazione, l’idea che essa dovesse rendere i ricchi più ricchi. È entrata nel senso comune l’acquiescenza al fatto che la ricchezza non può essere limitata, perché altrimenti si rischierebbe di porre un inceppo alla macchina prodigiosa dello sviluppo economico. Uno dei più ricorrenti fra i luoghi comuni del nostro tempo prevede che qualsiasi tentativo di porre un freno all’arricchimento individuale possa comportare un danno potenziale alla crescita economica.
Solo così, oltre che con la ricerca di facili effetti di propaganda, si può spiegare l’insistenza con cui si prescrive la ricetta della riduzione delle tasse come via maestra al rilancio dello sviluppo. Diverso sarebbe, naturalmente, se si volesse abbassare il livello dell’imposizione fiscale per incrementare la domanda interna in tempo di crisi. Una misura simile, però, non potrebbe rivolgersi indiscriminatamente a tutti i tipi di reddito prescindendo per giunta dalla loro entità. Avremmo ormai dovuto imparare dai tempi recenti che nulla garantisce che una minore pressione fiscale si traduca di per sé automaticamente in nuovi investimenti.
In realtà, è sin troppo facile constatare come la grande questione della redistribuzione della ricchezza ai fini di una migliore giustizia sociale sia a tal punto uscita dalle nostre prospettive politiche che non riusciamo a ripristinarla nemmeno durante una fase di grave flessione dell’economia. Il nome di Keynes è tornato spesso alla ribalta durante il 2009, citato da tutti coloro che si sono soffermati sugli strumenti di sostegno pubblico alla ripresa economica. Nessuno o quasi ha ricordato, tuttavia, che la sua grande opera del 1936, la Teoria generale, poneva le ragioni dell’eguaglianza come finalità del processo economico. E faceva del fisco una leva della giustizia sociale.
Tags: aliquote, Berlusconi, crisi economica, disuguaglianza, Giuseppe Berta, imposte, keynes, poveri, redditio, redistribuzione, ricchi, socialdemocrazia, tasse, Tremonti,
14 Gennaio 2010
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