Le donne come motore di crescita e sviluppo in tutto il mondo. Uno speciale a puntate del New York Times sulla condizione femminile rivela impensabili arretratezze, ma anche sorprendenti punte di progresso. Ad esempio nei paesei musulmani
di Giulia Stok
La cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidentessa delle Filippine Gloria Arroyo, l'ad di Icici bank Chanda Kochhar, lavoratrici afghane, la presidentessa della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, una peacekeeper nigeriana, la norvegese Margareth Ovrum del cda di Statoil, la manager della Bank of America Sallie Krawcheck, l'ex presidentessa dello Sri Lanka e prima donna al mondo eletta capo di stato Sirimavo Bandaranaike, il ministro del lavoro tedesco Ursula von der Leyen
TFF. Che per gli italiani, se sono cinefili, tutt’al più significa Torino Film Festival, ma per il New York Times sta per The Female Factor. Ovvero, il fattore femminile, inteso come motore di crescita e sviluppo. È da metà gennaio che il quotidiano detentore di più premi Pulitzer al mondo pubblica un serie speciale dedicata alla condizione delle donne nel diversi continenti. Scorrendo le decine di articoli si scoprono impensabili sacche di arretratezza e altrettanto inattese punte di progresso.
Nell’avanzata Germania guidata da una donna (guarda caso, senza figli) è ancora considerato disdicevole che una madre torni al lavoro, anche se il bambino è cresciuto. “Perché l’hai avuto, se poi non puoi occupartene?”, si sentono chiedere le incaute, già angosciate dalle complicazioni organizzative date da un sistema scolastico che fino a poco tempo fa non prevedeva il tempo pieno (>>). Il politico conservatore Ursula von der Leyen, che ha sette figli e si batte per promuovere il congedo di paternità, afferma che solo quando viveva nella pragmatica America non si sentiva in colpa per avere sia figli che carriera. Lì la reazione a una maternità è di questo tipo: congratulazioni, hai avuto un bambino! ora rimettiti al lavoro per pagargli il college (>>).
Nella stessa America però sembra si stia cercando di espellere le donne dall’alta finanza. Sallie Krawcheck, licenziata mesi fa a causa della crisi dal suo posto di manager alla Bank of America, è stata da poco riassunta. Il suo però è un caso isolato: negli ultimi mesi la percentuale di donne a Wall Street è scesa di quasi 5 punti. Perché? Bruce Greenwald, professore alla Columbia University, sostiene che l’ambiente finanziario sia uno dei più machisti in assoluto (>>). Apparentemente però, non in India, dove quasi tutte le maggiori banche sono guidate da donne. Come l’Icici Bank, la seconda del Paese, dove le donne sono il 40% dei manager, e si applicano sistemi flessibili e innovativi per conciliare lavoro e maternità. Senza differenze di paga. (>>)
Un analogo 40% invece ha scioccato la Norvegia, quando è stato proposto come quota obbligatoria di presenza femminile nei consigli di amministrazione. Benché l’80% delle donne lavori fuori casa, e solo metà dei ministri dell’attuale governo sia uomo, l’idea di introdurre una legge per regolamentare il settore privato sembrava una proposta radicale. La proposta però pare in sintonia con altri Paesi europei (non l’Italia, no): si stanno discutendo disegni di legge analoghi in Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania e Svezia (>>).
Le imprese al femminile del resto sono ormai una realtà perfino in Afghanistan, dove l’esercito americano sta cercando di sostenerle, sia per dare maggiore stabilità al Paese in ricostruzione, sia, a dire il vero, per rifornire di materiali il nascente esercito locale filo Usa (>>). La sorpresa più grossa però è ancora più a Est: è l’Asia il continente al mondo dove le donne hanno maggior potere politico. Spesso elette grazie al potere della famiglie di nascita, governano o hanno governato lo Sri Lanka (Sirimavo Bandaranaike nel 1960 fu la prima donna al mondo eletta capo di stato), l’India, il Pakistan, l’Indonesia, il Bangladesh e le Filippine. Un dato ancora più sorprendente se si pensa che gli stati del sud est asiatico sono quasi tutti a maggioranza musulmana. Ma una ricerca tedesca del 2005, sfata ogni residuo pregiudizio: tranne che in Afghanistan e in Brunei, le donne guidano governi o i maggiori gruppi di opposizione di tutti i paesi islamici della regione (>>).
Altre sorprese più a Sud: la Liberia sta uscendo dalle conseguenze di 14 anni di guerra civile, guidata da un presidente donna, Ellen Johnson Sirleaf. Una che ha fatto della lotta per la legalità il suo cavallo di battaglia nelle elezioni del 2005, da cui è uscita vincitrice, sostenendo che in Africa gli uomini siano più a rischio di corruzione (>>). Altro argomento politico della Sirleaf è l’importanza fondamentale delle donne nel processo di ricostruzione della Liberia, in virtù della loro maggiore sensibilità e capacità di cura. E per questo, in una nazione che ha avuto 200mila morti, e in cui i sopravvissuti patiscono violenze, torture, stupri da bande di ex soldati diventati dipendenti dalle droghe, l’ordine viene mantenuto da truppe femminili: è una missione delle Nazioni Unite, composta da un corpo di polizia speciale di donne indiane, a combattere il crimine notturno, in una specie di laboratorio per il peacekeeping del futuro (>>).
A questo punto, viene facile concordare con Nicholas Kristof che, sulle colonne dello stesso giornale, individua i prossimi passi per una completa emancipazione femminile: educazione, cura della salute, progetti di microcredito. Se diamo loro gli strumenti, saranno le donne africane e asiatiche a salvarci, non le manager della City.
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