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MUSICA

Jazz, etnica e...

 


di Dario De Marco


Se cercate un'alternativa al pop-rock, ecco una selezione di dischi dalla stagione musicale appena passata. Si parla di: Canzoniere grecanico salentinoMulatu Astatke, Flaming Lips 
 
Un po’ certi dischi uno se li lascia indietro, sicuro di riuscire a dedicarci l’attenzione che meritano da un momento all’altro, e invece poi perdendoli per strada. Un altro po’ certi dischi più passa il tempo e più diventa netta la loro importanza. Per cui a fine anno (scolastico) ci si ritrova con una pila di cd sempre più alta e più pericolante, e l‘esigenza di fare ordine. Allora ne estraiamo tre - non a caso ma neanche con la pretesa di essere esaustivi - bilanciando tra etnica, jazz e rock strano. Non sarà la superclassifica dell’anno, ma è un piccolo spunto per una playlist insolita
 
 

Canzoniere grecanico salentino, Focu d’amore, Ponderosa 2010 
focud'amore.jpgSu Salento e dintorni è stato detto tutto e il contrario di tutto: tarantismo e neo-tarantismo, esorcismo e rilancio turistico, chiesa di Santu Paulu a Galatina con tanto di possedute e Notte della Taranta a Melpignano con tanto di rockstar, arretratezza del profondo sud e scuole di pizzica in tutto il nord, l’entroterra griko e le spiagge da sogno, tradizioni perdute e tradizione da rinnovare, Ernesto De Martino è superato e ni na ni na ni na / beddhu l’amore e ci lu sape fa’…
 
Facciamo finta allora che ad ascoltare Focu d’amore sia un marziano, o peggio, un italiano adolescente di oggi. Il quale non ha mai sentito parlare del revival folk degli anni ‘70 né del Canzoniere Grecanico Salentino, che 35 anni fa fu il primo gruppo del genere in Puglia. Che cosa sente? Un attacco possente, un tamburo che va come un treno su un ritmo stranamente binario, un violino che incalza, una voce che canta una melodia straziante e aliena. Beddhu stanotte appartiene al genere della pizzica reloaded, come anche Canzune alla ruvescia: l’effetto è ipnotico, inquietante. Poi ci sono le ninne nanne e le serenate (Nenia grika, La furesta) dove l’intervento si fa più spinto, e al tempo stesso delicato, trasformandole in intime ballad jazz: chapeau ai musicisti. Poi c’è il filone bandistico (Tuppe tuppe, Zumpa Ninella), sonorità d’antan e testi allegri: e qui il nostro adolescente sorride ironico, ma chi ha detto che l’effetto ricercato non sia proprio questo? Infine c’è il genere canzone impegnata (Il mito, la spassosa e amara La quistione meridionale) con testi in italiano: qui il ragazzo dovrebbe iniziare a riflettere. E noi ricominciare a farlo.
 

 

 
Se riuscite a trovarlo, ascoltate anche: Cesare Dall'Anna, Girodibanda, 11-8 Records 2008 
 
 

Mulatu astatke, Mulatu steps ahead, Strut records 2010
mulatu-steps-ahead.jpgQuante se ne devono vedere: non bastavano i griot del Mali che a un certo punto si sono messi a suonare le chitarre elettriche cercando disperatamente di richiamarsi al blues, cioè a quella musica che i neri americani inventarono cercando disperatamente di richiamarsi alle radici africane (leggi ad esempio la recensione all'album di Dirtmusic e Tamikrest). Adesso (in realtà già da qualche anno) arrivano anche gli etiopi con i sassofoni a metter su gruppi jazz - facendo fare al genere un analogo surreale percorso di andata e ritorno. Di più: c’è chi, come Mulatu Astatke in questo Mulatu steps ahead, programmatico fin dal titolo, si richiama al Miles Davis della ricerca modale, cioè quello che si richiamava all’Africa. 
Ehi, un attimo direte voi, ma cos’è questo, razzismo musicale? Ognuno deve stare fermo a suonare la musica della sua tribù? Non diciamo sciocchezze. Considerate piuttosto, in tutta onestà, quest’altro paradosso: che Mulatu, riconosciuto padre dell’Ethio-jazz, probabilmente si sente figo e international proprio per quel tanto di jazz (e di ritmi caraibici, sì) che è riuscito a innestare sulla base tradizionale (Mulatu‘s mood, Ethio blues); mentre a noi dal canto nostro piace proprio per quel tanto di esotico, di aroma di caffè (e a noi italiani anche di rimorso di coscienza per le faccette nere) che nonostante tutto continuiamo a percepire, sotto il vibrafono del leader e quella tromba con sordina smaccatamente davisiana (Green Africa, I Faram Gami I Faram).
 
Ma le cose sono ancora più complicate, perché in realtà Astatke è tutt’altro che un primitivo arrivato l’altroieri dal villaggio: fin da giovane ha girato Europa e Usa, ed è stato il primo studente africano della mitica università musicale di Berklee. Ha suonato tra l‘altro con Duke Ellington, che con la sua orchestra portò al massimo fulgore il jungle, quel genere fatto di barriti imitati col trombone e scenografie di palme ritagliate nel cartone, che dava brividini di piacere ai bianchi nelle ballroom della prima metà del ‘900, e che a tratti sembra tornare nei brani di Mulatu steps ahead. In pratica, l’Africa che si adegua all’immagine distorta che l’occidente si è creato. Dopo la musica afro-americana e quella afro-cubana, è arrivato il momento della musica afro-africana?
O forse le cose sono molto più semplici, e si tratta solo di godersi questo torrido e incantevole miscuglio senza pensare alle frontiere stilistiche, né geografiche, né tantomeno temporali. E’ vero, sembra la musica degli anni ’40: ma del secolo scorso, o del prossimo?
 

 
Se cercate un po’ d’Africa in giardino, ascoltate anche: Saba, Biyo, Egea 2010
 
 
Flaming lips, The dark side of the moon, Warner Brothers 2010  
flaming_lips_DARKside.jpgUna bella canzone è una bella canzone anche eseguita solo chitarra-e-voce, dice il luogo comune pop, a significare la superfluità dell’arrangiamento, o comunque il suo status sminuito, di sovrastruttura. A smentire l’adagio arrivò negli anni ‘70 il progressive, che restituì ruolo primario alla musica: come distinguere l’introduzione di Firth of fifth dei Genesis dal suono del pianoforte, come separare i versi di 21st century schizoid man dei King Crimson dal filtro che li distorce in un rantolo, come immaginare la melodia di The great gig in the sky dei Pink Floyd senza l’ultraterrena voce dell’indimenticabile, e dimenticata, Clare Torry? Impossibile fare delle cover, a meno di non riproporre pedissequamente sonorità e arrangiamenti (come difatti fanno le tribute band).
A smentire la smentita arrivano oggi i Flaming lips, gruppo di mattoidi americani attivi da quasi trent’anni, con le loro schitarrate tra l'art rock e il punk, i loro testi filosofici e deliranti, i loro mega faccioni con cui salgono sui palchi. E osano l'inosabile, coverizzando il monolite di Dark side of the moon, ovvero l'album con il miglior rapporto successo-di-pubblico/giudizio-della-critica nella storia del rock. Per la verità The Flaming Lips And Stardeath And White Dwarfs With Henry Rollins And Peaches Doing Dark Side Of The Moon, questo il titolo completo, è uscito già da un bel po', addirittura nel 2009: ma un paio di mesi fa all'originaria "pubblicazione" solo su mp3 (acquistabile via iTunes) si è aggiunta l'uscita tradizionale su cd, e addirittura su vinile.
 
E' una concept-cover senza veri stravolgimenti o re-invenzioni, tranne rari casi: le strofe di Time (e un po' anche i ritornelli di Us and them) sono rallentate e sussurrate; il famoso exploit vocale di cui sopra (The grat gig in the sky) è soffocato in un urlo roco; i due strumentali On the run e Any colour you like perdono il futurismo d'annata in favore di scombicchierate chitarrelle funky. Per il resto è tutto all'insegna del semplificare, del togliere. L'immaginifico primo capitolo (Breathe) diventa un onesto e martellante straight rock. I curatissimi (e per l’epoca innovativi) effetti elettronici del produttore Alan Parsons sono ostentatamente ignorati, o peggio trasformati in scorregge di vecchi amplificatori a valvole. Gli assoli, già rari in quello che non era un gruppo di virtuosi sboroni, sono miniaturizzati o espunti, ridotti a estenuati giri a vuoto con sottofondo di lievi rumori (Money, ancora Time). 
I Flaming lips si pongono agli antipodi delle innumerevoli e indigeste letture orchestrali dei Pink Floyd: quelle sottolineavano le parentele (o meglio le velleità) classiche e magniloquenti, che non sono la parte migliore del quartetto di Roger Waters, e che comunque non hanno mai avuto tutto il peso che è stato loro attribuito. Il gruppo guidato da Wayne Coyne invece prende quei pezzi complicati ma dall'ossatura netta e senza tante pippe né timori reverenziali li risuona: grezzi come li potrebbe fare un gruppo di ragazzini che si mettono in sala prove con gli accordi appuntati sul retro delle dispense universitarie e un vago ricordo dell'originale su disco. Non è proprio la chitarra-e-voce del luogo comune, ma quasi.
 

 

Se vi sembra di ricordare che non è la prima volta, ascoltate pure: Easy Star All-Stars, The dub side of the moon, Easy Star 2003



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30 Luglio 2010


giudizio:



3.933531
Media: 3.9 (17 voti)

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