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LIBRI

Il paradosso del modello svedese

Nella raccolta Piramide, Mankell racconta i primi anni in polizia del suo eroe Kurt Wallander. E ci fa capire perché la crisi dello stato sociale e il successo del giallo scandinavo sono due facce della stessa medaglia


di Giampaolo Simi


Se la letteratura si nutre di paradossi, forse è in uno di questi che affonda saldamente le radici il boom del giallo svedese da esportazione. Lo si capisce abbastanza bene leggendo Piramide di Henning Mankell, antologia che racconta il principio ma sancisce la fine editoriale della saga di Kurt Wallander. Giacché, ricordiamolo, in principio non fu Stieg Larsson. Molto più in principio di Mankell ci sono stati Maj Sjöwall e Per Wahlöö, pubblicati da Garzanti e premiati a Cattolica nel remoto 1973. I due scrissero una decina di buoni gialli, recentemente riproposti da Sellerio dopo eloquente assist di Montalbano in persona, che li legge nella Vampa d’agosto. Il loro sguardo sull’inquietudine svedese era dunque in notevole anticipo (il loro ultimo libro insieme è del 1975, poi Per Wahlöö morì) e il loro linguaggio scarno, i loro dialoghi secchi e ritmati partecipano ancora oggi di quella classica essenzialità che non ha mai abbandonato le pagine del miglior noir francese.
 
Ma dieci righe fa ho annunciato un paradosso e penserete che mi stia perdendo. Torniamo a Mankell. I cinque racconti (due dei quali quasi romanzi brevi) di Piramide ci mostrano cinque momenti della vita e della carriera di Kurt Wallander prima del 1989, anno in cui si svolge il primo dei romanzi, L’assassino senza volto. In Piramide si parte dal 1969 e quindi si abbracciano vent’anni che, oggi, in prospettiva, sembrano un secolo. Wallander è giovanissimo, non ancora grasso, alle prime armi e in servizio a Malmö. È, per altro, già piuttosto incasinato con il padre e con la fidanzata. Non è incasinato con la figlia solo perché ancora non ce l’ha. Nel primo di questi casi non brilla per acume. Rischia la vita per una coltellata, e anche per un piatto di cozze mangiato assieme a un collega della polizia danese. Inizio a leggere e penso: è davvero un paradosso che uno così faccia il poliziotto. Proseguo a leggere e penso ancora: giusto in Svezia, nel 1969, uno così può decidere di fare il poliziotto. Ma il giovane Wallander sembra turbato innanzitutto dal fatto che in Svezia un poliziotto debba occuparsi di qualcosa di più di qualche spintone fra ubriachi. E allora trovo il paradosso di base: un racconto poliziesco in cui il protagonista in primis, per il fatto stesso di indossare l’uniforme della polizia ed essere armato, rischia di essere già il simbolo stesso del fallimento di un modello sociale. Se infatti la qualità della vita è alta, le tutele sociali solide, i servizi efficienti, i poliziotti dovrebbero essere pochi e pressoché disoccupati. E invece la gente si ostina a morire di morte violenta. Come il dirimpettaio di pianerottolo di Wallander, il solitario e misterioso Hålén, apparentemente suicida.
Sempre per questo motivo, per uno come Wallander ogni crimine di una certa rilevanza è una ferita non rimarginabile, la crepa che annuncia il crollo, è il segno che l’utopia socialdemocratica prende ogni giorno di più i contorni sfocati di un’illusione.
Da questo punto di vista, nonostante il ritmo pacato e i toni misurati, il modulo giallistico di Henning Mankell non è né rassicurante né consolatorio. Non sarà la soluzione del caso a rincollare i frammenti ormai irriconoscibili di un’illusione. Scoprire la verità non consola, casomai ferisce ancora di più.
 
Dietro a questo senso di fallimento, troppo spesso esplicitato a mo’ di tormentone (“cosa sta succedendo in Svezia, da un pezzo in qua?”), si intravede però un altro fallimento che, a seconda dei casi, precede il fatto criminoso o ne prescinde. Le vittime e gli assassini, i rei e gli investigatori di Mankell vivono immersi in una solitudine spessa e inafferrabile. La combattono, certo, ma con scarsi ed effimeri successi. Il modello svedese, secondo Mankell, non solo non ha prodotto una società senza crimine (e questo era naturalmente da mettere nel conto) ma non ha poi neppure generato quel po’ di felicità che ci si doveva ragionevolmente aspettare. E non ha neanche reso, facendo i conti al volgere ultimo del ventesimo secolo, le persone più aperte, fiduciose e tolleranti. Se non in superficie.
È questa specie di rassegnato candore che strega oggi così tanti lettori fuori dalla Scandinavia? Nel gialli scandinavi leggiamo forse la perdita di un’innocenza che noi ci siamo persino scordati di aver (forse) posseduto?
L’indagine dell’ultimo racconto è la piramide che Wallander non riuscirà a scalare fino in cima. Un traffico che parte da molto, troppo lontano e catapulta sulla Svezia del sud quintali di droghe. Un’organizzazione che vanta coperture troppo ampie.
È l’8 gennaio del 1990, l’inizio di un decennio e anche l’inizio della saga di Wallander. Ma è soprattutto la fine del grande sogno socialdemocratico ormai orfano del suo leader Olof Palme. Sul cui omicidio le ombre del mistero sembrano purtroppo destinate a trasformarsi nelle ombre dell’oblio.


Tags: giallo, Giampaolo Simi, henning mankell, Kurt Wallander, modello scandinavo, piramide, stato sociale, svezia,
09 Dicembre 2009

Oggetto recensito:
HENNING MANKELL, PIRAMIDE, MARSILIO, P. 409, EURO 9.50
Da consigliare: ai patiti di Kurt Wallander, ma forse non ai neofiti. Meglio che inizino da uno dei primi romanzi. Mankell assicura di non aver svuotato i cassetti per comporre questa antologia del giovane Wallander, ma lo stile piano diventa spesso piatto
Il racconto migliore: Piramide, il più moderno e il meno schematico
Il racconto peggiore: La spaccatura, racconto d’azione con la pretesa di restituire una storia di immigrazione. In pochi minuti, con una pistola alla tempia e un morto a terra, e con una dose predigerita di progressismo a buon mercato. Improbabile
Dove riesce: nel tratteggiare l’evoluzione del rapporto fra Wallander e suo padre, fricchettone cocciuto, monomaniacale e bugiardo
Dove fallisce: nel farci capire perché Wallander si sia innamorato così perdutamente di Mona. Una simpaticona che, per dire, lo pianta quindici giorni per un ritardo di nove minuti
giudizio:



8.01
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