Il protagonista di Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico, raccoglie le pagine inedite di uno scrittore morto prematuramente. Il trentacinquenne napoletano ci fa riscoprire il piacere della letteratura postmoderna e mette la parola fine alla moda del neo-neorealismo
di Matteo Di Gesù
La premessa, beninteso, non è d'obbligo; tuttavia può essere utile per dire alcunché del romanzo di Cristiano de Majo, Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico. Ci fu un tempo, ormai immemore nelle deperibili cosmogonie della critica letteraria, in cui alla narrativa postmoderna veniva imputato di fare “letteratura di secondo grado” e di praticare impunemente il metaromanzo (si tratta, alla grossa, di quello che Umberto Eco spiegava così: non scriveremmo più «ti amo disperatamente», bensì: «come direbbe Liala, “ti amo disperatamente”»). Bisognava raccontare la realtà, perbacco, sporcarsi le mani e smetterla di atteggiarsi a dandy.
Ora che la sbornia di neo-neorealismo è in via di smaltimento e che tutti vanno in brodo di giuggiole per il libro di David Shields Fame di realtà (che spiega, per interposta persona, che la mimesi romanzo non funziona più); ora che abbiamo finalmente garantito a De Cataldo una rendita sufficiente per accaparrarsi un container di toscani stravecchi e consentito ai Wu Ming di andarsene in tournée per le più prestigiose università del mondo a ciarlare di quella boiata del New Italian Epic; finalmente - si diceva - parrebbe che il metaromanzo, la metaletteratura possano essere praticate senza che i loro autori debbano muoversi furtivi nella notte rasentando i muri. Nell'ultimo pamphlet di Filippo La Porta, addirittura, a proposito di metanarrativa, si leggono pagine lusinghiere su David F. Wallace e Roberto Bolaño. E del resto, se di questi tempi la trovata più sofisticata per segnalare - via bestseller all'italiana - quanto siamo diventati cattivi è evocare la violenza sui bambini, anche i ricettari di Antonella Clerici assurgono a dignitose compilazioni letterarie.
Il momento è propizio, insomma, per dirottare sul libro di de Majo senza più patire il senso di colpa della lettura disimpegnata. Tale lettura, anzi, se condotta coscienziosamente, ci farà comprendere d'un tratto, come in un'intuizione pura, che le amene turpitudini che ci hanno ammannito, spiegandoci per giunta che il noir e il poliziesco servivano a raccontarci l'Italiaccia infame del tempo presente, passato e prossimo venturo, erano in realtà un tantino consolatorie e autoindulgenti; ci farà dubitare, in altre parole, che quel sopracciglio corrucciato che mantenevamo mentre ci venivano illustrate le efferatezze (per dire) del Canaro, non solo era una posa, ma finiva col farci sgravare, in duecento pagine di romanzetto, qualche chilata buona di responsabilità individuali in tema di degrado morale, civile, culturale, politico.
Ciò che sorprende di più, oltretutto, è che questa diagnosi implacabile della bêtise contemporanea venga calibrata con precisione radiologica sulla generazione nata negli anni Settanta, e proprio da un esponente della stessa schiatta venga formulata (l'autore è del 1975): "Mi sembra di aver pensato al fatto che, anche se non c'era niente di cui andare fieri, ero contento di vivere nel millenovecentonovantacinque, ricordare per sempre che un giorno siamo stati questi e che non abbiamo voluto niente perché niente era previsto per noi", sancisce il “giovane impostore” del romanzo, nel corso della sua giovinezza. A riprova del fatto che è venuto il tempo di liquidare i narcisismi autocelebrativi della classe dirigente “che ha fatto il Sessantotto” e di lasciare che a scalzarli siano per l'appunto quelli venuti dopo, con tutti i loro tormenti.
Ma a questo punto la premessa si è presa quasi tutto lo spazio della recensione (la quale, temo, sia diventata anch'essa una specie di metarecensione) e in quello che rimane si dovrà pure scrivere qualcosa del romanzo. Massimiliano Scotti Scalfato, giovane esperto di curatele letterarie e discepolo seguace delle tesi filologico-esoteriche dello specialista T. Pasernach, viene incaricato di editare e pubblicare il romanzo incompiuto del talentuoso amico D.D., morto precocemente per un tumore. Il libro di de Majo è il racconto in prima persona di questa ricostruzione filologica e del suo esito imprevisto e insieme la trascrizione dei materiali letterari di D.D. (cartoline, abbozzi di poemi adolescenziali, memorie magnetiche, racconti, articoli, un "tentativo di romanzo"). Ma se le premesse - e le prime pagine - inducono a supporre che i due protagonisti siano quasi due intellettuali-eroi (eroi monchi e degradati, certo, ma pur sempre mirabili), procedendo nella lettura lento e inesorabile si insinua e prende vigore (ma senza mai proliferare) il dubbio che tanto il curatore quanto lo scrittore mancato siano due uomini senza qualità, forse nient'altro che due imbecilli.
Volete davvero sapere come stiamo messi, allora, per una volta senza concessioni a commissari e assassini seriali, stragi e abusi? E quale sorta di redenzione possiamo impetrare all'arte e alla letteratura? Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico fa al caso vostro. Ma tirate giù dalla libreria del salotto anche Bouvard e Pécuchet di Flaubert e La vera vita di Sebastian Knight di Nabokov e teneteli a portata di mano: è da questi che il romanzo discende. Senza nasconderlo.
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Cristiano de Majo, Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico, Ponte alle Grazie 2010, p 288, euro 17,50
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