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LIBRI - NARRATIVA

Archetti, la storia nuda

L'Italia dell'immediato dopoguerra, quella dei telefoni bianchi, è lo sfondo per la vita dickensiana della figlia di una delle tante famiglie di senza-speranza. Sette diavoli è l'ultimo romanzo di uno dei più interessanti scrittori italiani, protagonista di un progressivo percorso di scarnificazione dello stile, per arrivare all'essenziale


di Marinella Doriguzzi Bozzo

 


Come ricorda Roberto Calasso ne L'impronta dell'editore (Adelphi, 2013) gli antichi greci usavano il termine ecfrasi per indicare quel procedimento retorico che consiste nel tradurre in parole le immagini dell'arte. Sicché la scelta della copertina di ogni libro diventa, più o meno consapevolmente, l'applicazione inversa di tale pratica. Nell'ultimo romanzo di Marco Archetti la Silvana Mangano di Riso amaro (1949) guarda il lettore da lontano con una provocante smorfia di sfida, mentre l'incombere del seno in primissimo piano sembra un baluardo che insieme lusinga e accoglie, minaccia e respinge.
 
Fratturata da fatali tagli prospettici ed emotivi, la protagonista si impone prima ancora della sua stessa voce e nel contempo si mimetizza con tale prepotenza da indurci subito a voler sapere tutto di lei, e anche in fretta, già sedotti dall'alone delle reminiscenze filmiche come dalle diverse promesse di nuove incarnazioni. E nessun altro autore può rispondere con altrettanta totale immediatezza a questa esigenza, forte della sua lucida volontà di "raccontare storie e nient'altro che storie", secondo percorsi calibratissimi e al tempo stesso "tesi come fucilate", che si aprono in frasi secche come rose di pallini, per colpire il bersaglio, senza trascurare lo sgranarsi dei contesti e delle atmosfere.
 
L'Italia di partenza è quella desolata del fine guerra, dove i ricchi rimangono ricchi e i poveri talmente poveri da non potersi abbrutire ulteriormente. Ma l'immaginario è quello dei telefoni bianchi e delle sigarette ovali e il cinema lo specchio che rimanda il confronto, sette-diavoli-LEZFU8L4.jpginseminando sogni come rivalse grazie a un incrocio di livelli: gli spettatori deprivati in basso e gli attori che fissano dall'alto dello schermo solo gli occhi dei loro simili. In questo mondo di esclusioni si arrabatta un'adolescente lentigginosa, senza padre, senza madre, con uno zio carognesco e un fratellino minorato. Lavora come un uomo e sogna di fuggire, piena di rabbie, di rivendicazioni,di disgusti, di desideri.
 
Non siamo nei paraggi della piccola Dorrit perché Brescia non è la Londra di quasi due secoli fa e non ospita la crudeltà metafisica di Dickens, però sono presenti tutti gli elementi popolari del kitsch "alto", scarnificati con impavida perizia, nonché circostanziati secondo le storie disegnate di Grand hotel e della Domenica del Corriere, in cui il confine fra invenzione e cronaca si perde nei medesimi colori primari e negli stessi tratti forti. Racconto di una non-vita che avanza per inciampi lungo una linea inerziale di perdizione classica (e la caduta è quasi un paradosso perché ogni volta sembrano non esistere più scalini da scendere) quello di Egle ha il sapore dell'ultimo sangue: prima la preda vive tra infelicità e piccoli sfiati onirici, poi striscia per opportunismo, in seguito si immobilizza simulando l'assenza, e infine cerca di non disconoscere almeno le possibilità genetiche del suo stesso grumo biologico, sino a riportare l'ultimo livello teatrale privilegiato - quello distratto di Dio - all'obbligo di una occhiata sulla platea degli ultimi.
 
Ed è proprio nella trappola di un vicolo senza speranza, anzi, materia stessa del vicolo, che la tragedia di Egle si consuma con lo stesso palpitare folle dell'esistere braccato, che non ha futuro perchè il futuro è possibile solo per altre specie, eppure non può impedirsi di puntare inesaustamente i gomiti sul bordo del buco, visto che fuori ci sono ancora tradimenti da subire ma anche vendette da compiere. Intorno, la provincia degli anni cinquanta, resa ambiguamente atonale da strati di fango, di secrezioni, di odori che opacizzano l'animo più della nebbia che viceversa pietosamente li occulta, e le figure anonime di un presepe malavitoso di piccolo cabotaggio, coro pastorale di vittime e di carnefici a loro volta destinati al macello.
 
Come già sottolineato in altre occasioni Marco Archetti si muove da autore consumato in un suo preciso universo di riferimento, e in questo senso recupera alcuni ansimi della carne venduta di Lola motel (2004) mentre la dislocazione storica appartiene a Maggio splendeva (2006) seppur con un diverso cenno al mondo borghese del fascismo romano.
Eppure, dopo i precedenti cinque magnifici romanzi, qui fa un ulteriore passo avanti - o di lato - privilegiando in assoluto l'incalzare della storia a discapito di qualsiasi tornitura letteraria, accelerando ulteriormente l'iter strutturale di Sabato, addio (2011).
Tuttavia, poiché la disperazione è ineffabile - nel senso latino di non parlabile - anche l'impianto narrativo si fa "cosa" come il linguaggio, e incastra gli episodi uno dietro l'altro senza artifici temporali che favoriscano strumentalmente le sorprese della suspence, mentre la stessa onnipotenza dell'autore-demiurgo sembra quasi messa in dubbio a partire dalla primissima frase di Egle:"Chi ha inventato la mia vita?".
 
Rimangono a fare da battistrada i sette vizi capitali - i diavoli del titolo - sorta di attaccapanni biblico cui la protagonista appende come stracci il viatico delle sue considerazioni, in attesa dell'ultima autoingiustizia da vittima ribelle in un'apocalisse diseredata d'ogni liturgia. Si chiude una lettura tutta di un fiato con la sensazione di aver di colpo barattato i polmoni con delle branchie e di aver sfogliato un album lontano i cui contenuti si stanno in qualche modo riavvicinando.
 
Nonostante il volontario sacrificio di ogni lusinga letteraria che non consente di isolare frasi di bellezza autoportante (degne cioè di alimentare un florilegio antologico) si è quasi costretti ad apprezzare una volontà di scrittura che riduce tutto all'essenziale, perché l'argomento non consente orpelli di alcun tipo. Marco Archetti qui si spoglia francescanamente e rabbiosamente, riducendo all'osso il suo cospicuo bagaglio espressivo, per porsi davanti agli eventi con l'umiltà essenziale e prepotente di un coltello davanti al pane: un altro sortilegio del codice segreto di uno scrittore compiuto, che ha il coraggio di rimettersi in discussione, accettando i conseguenti rischi di una ulteriore prova di vitalità artistica, sicuro dell'empatia quasi alchemica che lo collega alle aspettative inconsce di ogni lettore... intanto la storia e i personaggi crescono nel ricordo.



Tags: giunti, Marco Archetti, Marinella Doriguzzi Bozzo, recensione, romanzo, sette diavoli,
10 Aprile 2013

Oggetto recensito:

Marco Archetti, Sette diavoli, Giunti Editore, p 182, 12 euro, 2013

 

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