L'ultimo capitolo della saga bondiana è diretto da Sam Mendes e vede l'agente 007, ancora con il volto di Daniel Craig, problematico come non mai. Un calibratissimo gioco fra il vero, il falso e il verosimile.
di Marinella Doriguzzi Bozzo
Sugli schermi dell’infanzia, Tom e Jerry se le danno di santa ragione, e ogni possibile marchingegno domestico è utile per sortire effetti violentissimi senza che nessuno si massacri definitivamente: la rivalità non è una contrapposizione fra buoni e cattivi, ma un semplice espediente perché la lotta senza esclusione di colpi possa proseguire all’infinito.
Sugli schermi dell’età adulta, le avventure di James Bond ricalcano da quasi cinquanta anni lo stesso schema, ma il conflitto, sotto l’egida manichea del bene e del male, è sempre all’ultimo sangue: i cadaveri dei nemici solo apparentemente “diversi”, si accumulano a corroborare la leggenda del perenne vincitore, perché anche in questo caso l’intrattenimento deve continuare. Lo farà grazie ad una fisicità iperbolica e alla progressione tecnologica di gadget mirabolanti che coadiuvano le più improbabili avventure, tali da beffare sempre sia la logica sia le leggi elementari della fisica. E in entrambi i casi i bambini e gli adulti seguitano ad abbozzare con entusiasmo, perché il bello dell’incredibilità consiste nel sapere stare alle collaudatissime regole del gioco, opportunamente contornate dalla riconoscibilità di vezzi sempre uguali e sempre reiterati.
Finché Daniel Craig e Martin Campbell arrischiano perigliosamente una discontinuità nella continuità formale della trionfante saga bondiana, parafrasando un giovane agente 007 alle prime armi in uno dei prequel più intelligenti e riusciti della storia del cinema seriale, Casino Royale.
Da quella data sono passati appena sei anni, e la regia di Sam Mendes (autore dell’indimenticato American beauty -1999) sbalza lo stesso Craig oltre il confine della maturità, facendogli fallire tutte le prove materiali e psicologiche di riammissione al servizio di sua Maestà. In altri termini, inserisce una linea d’ombra conradiana che scorre lungo tutto il film come lo snodarsi del mitico treno che apre il racconto: mentre il giusto e l’ingiusto sfidano la forza di gravità sul tetto dei vagoni, marcano nel contempo lo spartiacque fra un passato sempre rimosso e un futuro che, grazie all’insolito finale, non sarà mai più lo stesso. Perché qualcuno muore e perché la sequenza del treno, abusato raccordo fra il prima e il dopo, si disperde nella limbica oscurità di acque amniotiche, in una bellissima apertura sui titoli di testa, a significare che siamo più dalle parti di Freud che da quelle di Fleming. Vincendo così l’impossibile sfida di cambiare le regole senza rinnegare la tradizione, sia il regista che gli sceneggiatori e gli attori attingono a piene mani dall’incoscio, in omaggio alla frase chiave del film: “I migliori agenti segreti sono orfani”.
L’esteriorità riconoscibile della trama si incrocia quindi con il mai detto, a sciogliere e nel contempo ad arricchire il sottinteso grumo umano di una personalità (almeno fino all’interpretazione di Daniel Craig) priva di malinconie, di insicurezze, di solitudini inconfessabili mascherate dall’oblioso lenire dell’azione per l’azione. E mentre un filo di autoironia riporta le attrezzature futuristiche alla antiquata prosaicità di una radio e di una pistola, fino a riesumare affettuosamente la decrepita Aston Martin, il dramma di Edipo, quello shakespeariano di Re Lear e quello del ‘doppio’ caro a Stevenson, contrappuntano le gesta, senza nulla togliere alla progressione consolidata del plot.
Ne risulta un intrattenimento godibile dagli esegeti come dai neofiti, da coloro che si accontentano di una lettura univoca come da quelli che amano le stratificazioni dei significati: si vedano a questo proposito il mestiere spionistico come un surrogato della famiglia, la direttrice M del S.I.S. nelle vesti di madre e di mantide, il cattivo Xavier Bardem (al suo meglio quando viene sfigurato da chiome impossibili come già in Non è un paese per vecchi dei fratelli Cohen -2007) a rappresentare il collega-congiunto-nemico parodistico, fino al colmo (per un femminiere incallito) di un accenno omoerotico che è in realtà un collegamento onanistico fra il protagonista e il suo doppio degenere.
Il finale domestico e allucinato chiude il cerchio dei conti esistenzial-psicanalitici in sospeso, anche se è l’unico vero difetto del film, perché troppo lungo e insistito. Ma tutta la pellicola è nell’insieme un teorema ben congegnato in chiave sistemica, dove ogni particolare rintocca e modifica gli altri, grazie sia alla macchina da presa che frange, rifrange e moltiplica le identità sullo sfondo di scenografie che ricordano i labirinti dell’ego, sia agli attori che mettono in atto una tripla recita di somiglianze, di diversità e di simbologie in un calibratissimo gioco fra il vero, il falso e il verosimile.
Difficilmente le monarchie sono costellate di degni eredi, perché le leggi genetiche provocano inevitabili salti. Tuttavia, contrariamente al parere di molti, Craig è il primo a raccogliere degnamente il testimone-scettro di Connery, confondendone la cifra di ex povero ma bello degli anni sessanta (assurto agli snobismi elitari di massa dei Martini mescolati e non shakerati nonché degli smoking impeccabili sotto la muta subacquea) con una problematicità quasi anonima: stropicciamento di rughe, occhi azzurri arrossati dalla stanchezza di vivere, orecchie a cavolfiore per sentirci meglio, ad ascoltare anche il cuore. L’individuo vorrebbe allontanare il feticcio e arrendersi all’avvicendamento generazionale modernamente contemplato dal film, ma la muscolatura continua ad obbedire ai riflessi condizionati di una disciplina solitaria lunga una vita.
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SKYFALL, di SAM MENDES, USA GB 2012, 143 M
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