Come il protagonista dell'ultimo film di Woody Allen, al visitatore del Palazzo Diamanti (Ferrara) viene offerta la possibilità di un salto indietro nel tempo fino agli Anni Folli. La Parigi di Modigliani, Picasso, Dalì. L'impressione però, è appunto quella di un dejà vu, con i soliti nomi di richiamo che nulla aggiungono alle conoscenze dell'avventore
di Mirko Nottoli
L'eco del vuoto di Salvador Dalì, 1935
Una domenica d'inverno. Ferrara, Palazzo dei Diamanti. Tempo grigio, nebbioso, temperatura che sfiora lo zero. Fuori, fila interminabile di persone. Dentro, la mostra Gli anni folli. La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalì. Ora, tutti sappiamo che dei tre nomi che compaiono nel sottotitolo non ci saranno più di due opere per ciascuno, essendo ormai la strategia rodata e il gioco tanto scoperto quanto comunque efficace: ma anche se ci fosse una personale di Picasso, anche se ci fosse Picasso in persona, cosa spinge centinaia di individui a stare al freddo, in piedi, incolonnati per intere mezze ore?
Ebbene, questa è la più autentica fotografia di quel fenomeno tutto contemporaneo che Jean Clair ha recentemente definito “il culto della cultura”, contrapponendolo alla “cultura del culto” praticato con maggiore cognizione di causa fino al secolo scorso. Motivo per cui è un continuo proliferare dell’aggettivo “culturale”. E’ più o meno lo stesso concetto espresso da Franco Battiato quando cantava “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura...”, chiosando con: “ e non è colpa mia se le pedane sono piene di scemi che si muovono”. Ed eravamo solo nel 1980!
Il successo delle iniziative di Palazzo dei Diamanti è sintomatico. Scorrendo le mostre che si sono susseguite negli ultimi anni troviamo: Sisley poeta dell’Impressionismo, Degas e gli italiani a Parigi, Boldini nella Parigi degli Impressionisti, e oggi, La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalì. Insomma, sembra sempre la stessa mostra, con un titolo leggermente diverso. Luogo e periodo storico non sono casuali. Parliamo infatti della Parigi di inizio secolo, le prime avanguardie, la belle époque, l’alba della modernità, parliamo di una serie di grandi artisti noti a tutti, moderni ma non troppo, le cui opere presentano soluzioni formali sufficientemente ardite da permettere al visitatore di sentirsi al passo coi tempi ma ancora abbastanza accessibili da non dargli la sensazione di essere tagliato fuori. Insomma, non sono le madonne col bambino cinquecentesche che ci fanno sentire così antiquati, ma nemmeno le montagne di caramelle ammassate per terra di fronte alle quali assumiamo il caratteristico sguardo bovino.
Sarà per questo motivo che c’è calca davanti all’unica tela di Dalì - che però è un vero capolavoro, L’eco del vuoto, 1935 – mentre è inspiegabilmente abbandonato a se stesso il celeberrimo Cadeau di Man Ray (a sinistra). Sarà per questo che la mostra meno visitata è stata anche l’unica fuori target nonché anche una delle più riuscite e affascinanti, quella su Robert Rauschenberg di alcuni anni fa. A confermare le nostre perplessità nella prima sala ci accolgono subito due opere mediocri di Monet e Renoir. E poi la metafisica di De Chirico e Savinio, il cubismo con Picasso, Braque e Gris, più un’interessante pittura di Le Corbusier, due quadri di Modigliani, un Leger, la Tour Eiffel di Delaunay, per concludere con la sala Dada seguita da quella dei surrealisti. Nessuna novità, nessuna opera imprescindibile anzi: tutte abbastanza interscambiabili e sostituibili.
Uno sguardo alle loro provenienze è altresì rivelatore: Copenaghen, Dallas, Washington, Minneapolis, Stoccolma. Tutti prestiti internazionali sintomo di un’altra isteria espositiva contemporanea veicolata da curatori internazionali, galleristi internazionali, direttori di musei internazionali in virtù della quale in questo preciso momento migliaia di opere d’arte volano sulle nostre teste inutilmente aviotrasportate da un continente all’altro, con conseguente innalzamento dei costi organizzativi e del valore della merce. Provate e informarvi a quanto ammonta la diaria per un accompagnatore di un prestito intercontinentale, e ne avrete un’idea.
La stanza più affollata rimane comunque il bookshop. Il catalogo va via come il pane, lo stesso che tra un mese troveremo sui banchetti dei remainder scontato al 50% e tra due definitivamente dimenticato. Di positivo c’è che i visitatori paiono soddisfatti. Entrano ed escono per imparare quello che già sanno. Non si apprende nulla. Si entra confidando all’amico “io adoro Picasso” e si esce sospirando “certo che Picasso…”. Non importa se a fianco c’era un Gris infinitamente migliore o un Soutine più bello di tutti i Modigliani messi insieme. Di quelli il 90% dei visitatori manco si ricorderanno i nomi.
L’unica sala degna di nota è a nostro avviso quella dedicata ai costumi e alle scenografie realizzati per i Balletti Svedesi e i Balletti Russi di Diaghilev, celebre impresario per cui lavorarono i più grandi artisti dell’epoca, da Picasso a Matisse, da Larionov a Derain, da Depero a Leon Bakst che diedero vita ad una nuova frontiera di arte totale in cui convivevano arti visive, teatro, musica, letteratura, coreografia, moda, comunicazione e pubblicità. La sala che non ti aspetti, l’unica che espone qualcosa di nuovo e che tenta di approfondire il discorso da una prospettiva inusuale. Ma temiamo che in pochi saranno d’accordo noi.
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Gli anni folli. La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalì. 1918-1933, Palazzo dei Diamanti, Ferrara
Fino a: 8 gennaio 2012
A cura di: Simonetta Fraquelli, Maria Luisa Pacelli e Susan Davidson
Orari: tutti i giorni, feriali e festivi dalle 9.00 alle 19.00. Aperto anche 1 novembre, 8, 25 e 26 dicembre, 1 e 6 gennaio
Ingresso: 10 euro, ridotto 8,50 euro
Catalogo: a cura di Simonetta Fraquelli, Maria Luisa Pacelli e Susan Davidson, Ferrara Arte Editore, 216 p a colori, 47 euro
Info: il flyer della mostra
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