di Sandro Chia
Oggi è facile risalire ad un nome o ad un fatto, se si ha un minimo indizio, basta non smarrirsi nella moltitudine di riferimenti generati dagli odierni motori di ricerca. Guardavo le riproduzioni di due ritratti dipinti nel seicento di antichi filosofi, sapevo il nome dei filosofi , ma mi sfuggiva il nome del pittore. Conoscevo l’opera dell’artista, quindi non si trattava di un problema di attribuzione, semplicemente non mi veniva in mente il nome.
In un saggio di psicoanalisi sulle occasionali amnesie si parla dello sgomento di un paziente del dott. Freud che non ricorda il nome Luca Signorelli autore del Giudizio Universale nel duomo di Orvieto. Mi stava succedendo la stessa cosa, ero vittima di una banale amnesia, che, come tutte le amnesie, banale non è. La differenza tra me ed il soggetto del saggio è che, se avessi voluto, avrei potuto in pochi secondi venire a capo della mia temporanea dimenticanza. Decisi che ricordare il nome del pittore non era così urgente e mi sarei masochisticamente goduto quel vuoto di memoria fin quando il nome del pittore non fosse emerso naturalmente.
Mi concentrai sui ritratti, il ritratto di Eraclito ed il ritratto di Democrito, due dipinti separati ma appaiabili per soggetto ed impostazione. Misi le riproduzioni vicine e mi sembrò più appropriato disporre Eraclito a sinistra. I due grandi filosofi dell’antichità erano di fronte a me sul mio tavolo, l’uno dall’aspetto cupo, piangente, disperato, l’altro sorridente, gioviale, soddisfatto. Non so se i due dipinti hanno mai costituito un dittico. E’ indubbio che l’intento del pittore era di rappresentare due temperamenti opposti che si confrontano, ma il dittico presuppone un passaggio temporale, una successione di eventi.
Cominciai con l’osservare l’Eraclito piangente. Il fluire delle lacrime che continua nel fluire della sua lunga barba bianca, il lutto del saio che indossa, non lasciano dubbi. Eraclito è rappresentato come il filosofo del flusso, dello svolgersi inarrestabile di un destino che va verso un tragico gorgo esistenziale. Le tonalità scure del quadro confermano il profondo pessimismo del suo carattere. Egli siede su una grossa pietra, la testa appoggiata sul palmo della mano contratta su un fazzoletto intriso di lacrime, il corpo piegato su se stesso, lo sguardo perso nel vuoto.
Osservo quello sguardo offuscato che non ha direzione: Eraclito, prigioniero della propria angoscia, non vede che se stesso defilato dal mondo. Il dolore di Eraclito non ha oggetto né causa. Per lui ogni impresa o azione che non sia il mero unirsi al suo pianto è futile follia. Democrito invece appare cordiale e sembra impaziente di dirci della sua più recente scoperta. Ha l’aspetto disteso, la gestualità aperta, ampia, generosa. Democrito ha in grembo un globo e sul globo indica sorridente un punto, un luogo speciale, un luogo d’armonia, calma e voluttà. I tratti del viso sono gioviali, resi con una materia pittorica ricca, piena che conferisce a Democrito un’aria sana e rubiconda.
Quando il termine “rubiconda” risuonò nella mia mente fu come una piccola rivelazione ed improvvisamente mi sentii molto stupido. Poi pensai che la mente e la memoria sono strani giocattoli, a volte noi giochiamo con loro, altre volte loro giocano con noi. Come avevo potuto dimenticare, come poteva essermi sfuggito il nome di Pietro Paolo Rubens, il rubicondo pittore delle figure rubiconde?
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Si foret in terris, rideret
Si foret in terris, rideret Democrits (Orazio, Epistole). In effetti costituisce un dittico piuttosto frequentat: a volte i due, come in Bramante, sono addirittura rappresentati assieme, l'uno nell'atto di ridere e l'altro di piangere,
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