Un pezzo della Recherche a teatro? L'azzardo è vinto dalla compagnia Lombardi/Tiezzi, che con una formidabile Iaia Forte riescono a dare voce alla passione (e alla sua fine) di Swann
di Sergio Buttiglieri
Partendo dal presupposto che Proust è irrappresentabile e intraducibile in qualunque altro linguaggio (i tentativi fatti finora a teatro e al cinema sono tutti impietosamente naufragati nell’oblio della mediocrità), la regia di Federico Tiezzi di Un amore di Swann è un esemplare tentativo di smentire questo assunto. A Firenze è infatti appena andato in scena, in prima nazionale con gran successo, questo celeberrimo episodio proustiano che racconta l’impossibile amore di Swann per la cocotte Odette, incontrata nel salotto di Madame Verdurin, che alla fine sposerà. Episodio in cui possiamo ritrovare ben esemplificata la sua poetica delle intermittenze del cuore.
Una inesauribile, immaginifica scrittura densa di fughe prospettiche, di piani multipli che ci conducono fluidamente dentro la sua sinfonia verbale. E la performance linguistica, altamente onomatopeica, di Iaia Forte, è un riuscito stratagemma teatrale per ricondurci dentro la personalità dell’ambigua signora, vero centro dinamico del romanzo. Così come decisamente centrata è la capacità straniante di Sandro Lombardi di raccontarci l’ossessione di Swann nei confronti di Odette. Utilizzando una lingua di matrice wagneriana, che ininterrottamente vibra, palpita e freme, per intervallarla ad un certo punto, inaspettatamente, con il dialogo diretto, non più con l’oggetto della sua ossessione, con quella sorta di Euridice, ma direttamente con l’attrice in scena, la convincente Elena Ghiaurov, deliziosamente ambigua ed evanescente, senza più la maschera della finzione. Queste scelte registiche sono un’interessante traduzione teatrale per poter fare intuire l’operazione di disoccultamento della realtà, implicita nella cifra linguistica di Proust. Convinto come era sicuramente l’autore che la realtà percepita e descritta naturalisticamente sia l’opposto della realtà che voleva disvelare.
Ciò a cui assistiamo, con per altro un sorprendente sistema di luci ideato da Gianni Polllini, che ci fa trasfigurare il cortile del Bargello dapprima in una sorta di grata, quasi fosse un confessionale digitalmente pulsante, poi in un coloristico dilatarsi di fiori dal sapore impressionistico, infine in un virtuale mimetico infiammarsi dei sentimenti, non è affatto una banale storia d’amore in un ambiente mondano, come a prima vista si potrebbe pensare, ma uno dei segni dell’autore, come li chiamava Gilles Deleuze. Segno che, prendendo a pretesto i romanzi sull’amore che tanto andavano di moda nella letteratura di fine Ottocento, finge di usare quella che i suoi contemporanei definivano una lingua noiosa, come se riproducesse una conversazione o una chiacchiera. Stile che tanto faceva arrabbiare il nostro G.A. Borgese, come anche il protestante e professionista Gide che si rifiutava di leggere il cattolico-ebreo Proust, questo signorino figlio di papà, per di più dilettante, tutto dedito alla frequentazione dei salotti parigini. La Recherce non si basa sull’esposizione della memoria, ma sull’apprendimento dei segni della memoria, e apprendere, come ci ricorda Platone, è ancora ricordare.
Ed eccoci ancora una volta al cospetto della immaginaria Sonata in fa diesis di Vinteuil, come se l’avessimo sempre ascoltata, ed eccoci di fronte a Madame Verdurin che sembra anticipare gli orridi salotti televisivi di Mara Venier, ed eccoci al cospetto dell’irresistibile sguardo inclinato di Odette ("oggi vi siete messi gli occhi dello stesso colore della cintura…"), così simile alle dame fiorentine di Botticelli sulle quali Proust ama in questo capitolo più volte ritornare. Ed eccoci di fronte all’ansia di Swann che spesso non compare più ai ricevimenti per paura di essere infelice, assolutamente convinto che ”non si ama che ciò che non possediamo”, ricordandoci, con effetto spiazzante, “i bisogni del tormento” di beckettiana nostra memoria. Perché, come dice bene Fabrizio Sinisi nel bel libretto di presentazione, il matrimonio di Swann e Odette è il funerale del loro amore, nonché dell’anelito, del desiderio infinito di entrambi.
Spettacolo che ci fa venire in mente ciò che scrisse Attilio Bertolucci proprio su Un Amore di Swann analizzando una rara copia che gli era stata donata, quasi del tutto intonsa, edita a pagamento, da parte di un Proust sconsolato, da Grasset nel 1913, de Il Coté de chez Swann. Attilio ne scopre addirittura un inaspettato inedito risvolto di copertina non firmato (non a caso Missiroli diceva: non c’è niente di più inedito della carta stampata) che attribuisce all’autore stesso. Risvolto in cui Proust suggerisce che “…l’amore si trasforma in una passione inquieta, diffidente e morbosa (inquiète, ombrageuse et maladive) accompagnata da tutti gli atti della più atroce delle gelosie… questo amore ci prende come un canto angoscioso…”. E lo spettacolo, grazie a questa superba triade attoriale, ci porta ineluttabilmente verso l’epilogo lasciandoci tutti sospesi in tale angosciosa “soggettiva”: ogni parola di lei, ci ricorda Sinisi, “ci suona, indipendentemente dalle prove concrete, come una menzogna. I due diventano due solitudini, due isolamenti feroci che si torturano l’un l’altro, come bestie dentro una gabbia sempre più stretta, dove tuttavia - vertiginosamente - si è sempre più lontani”.
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Marcel Proust, Un amore di Swann, di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi
In scena: a Firenze nel cortile del Museo Nazionale del Bargello fino al 3 giugno e poi dall’autunno in tournèe in Italia
La traduzione: di Giovanni Raboni
La drammaturgia: è di Sandro Lombardi
La regia: è di Federico Tiezzi
Le scene: sono di Pier Paolo Bisleri
I costumi: di Giovanna Buzzi
Le luci: di Gianni Pollini
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