In anteprima nazionale al da poco concluso festival Vie Di Modena, Pippo del Bono e la sua Compagnia hanno presentato un nuovo lavoro di spiazzante vitalità. Sotto la sua supervisione in scena, i sui non-attori hanno trasformato la propria sofferenza personale in quello che, più che uno spettacolo, può essere definito un laboratorio artaudiano
di Sergio Buttiglieri
Sbattuto in "prima pagina" anche da Le Monde, in occasione di una delle sue numerose tournèe francesi all’insegna del tutto esaurito, Pippo Del Bono è un regista anomalo, di quelli che ti lasciano il segno. Con i suoi spettacoli strani, squilibrati, spudorati e del tutto fuori dai canoni,sa farti riscoprire l’intensità del teatro e dimenticare, per qualche minuto, quanto possa essere opaca e spenta la drammaturgia italiana. Il suo lavoro, programmaticamente distante dalla razionalità, è così coinvolgente perché percorso oltre che da una grande intelligenza, da una profonda voglia di comunicare quanto di davvero importante c'è nella nostra vita.
Il teatro che ha in mente Pippo Delbono, formatosi con Iben Rasmussen dell’Odin Teatret oltre e con Pina Bausch, che lo scoprì e apprezzo' al Festival di Santarcangelo nel 1987, non può far altro che scavare nelle contraddizioni dell’uomo e, attraverso il suo sistema rappresentativo -così fisico, così diretto, cosi irripetibile, diverso sera per sera, scuoterci e farci scorgere oltre il velo della quotidianità. Per trovare una possibile chiave di lettura dei suoi lavori conviene lasciarsi attraversare dalle emozioni che le sue immagini riverberano in noi. Con quella visionaria Compagnia, intrisa di marginalità e asimmetrie, non puoi sonnecchiare: chi non si lascia travolgere dalla visionaria potenza dei testi, finirà comunque per sentirsi scosso, disorientato...Ma non si rimane indifferenti alla sua regia, non si può non notare la sua capacità di portare in scena una umanità che non finge.
Bobo, che ha vissuto tutta una vita rinchiuso in un manicomio perché microcefalo e sordomuto, rifiutato dalla famiglia, ritenuto non degno di vivere se non lasciato a vegetare nel chiuso di una di quelle feroci istituzioni totali che sono i manicomi, ora vive in casa di Pippo, gira il mondo con lui ed è acclamato per la sua straordinaria presenza. I suoi silenzi, i suoi gesti hanno una profondità che raramente trovi negli attori più consumati, Bobo è un vero trasformista: ogni volta che indossa un vestito diventa quel vestito. E proprio lui è diventato per Delbono il paradigma del suo Teatro.
I componenti della sua Compagnia non sono icone di sofferenza ma sono in scena per quello che fanno, per le loro azioni e le loro parole, non sono qui per stuzzicare il fascino del bizzarro e del diverso. C’è invece tanta dignità, ironia e autoironia nella loro presenza, tanta bellezza, si quella meno codificata. Attraverso la loro diversità Pippo Delbono, aiutato dalla preziosa sovrintendenza tecnica dell’attore argentino Pepe Robledo proveniente dal Libre Teatro Libre, ci fa trascendere dai nostri luoghi comuni per intuire un'altra possibile realtà, aiutato magari dalle oniriche atmosfere felliniane che sempre pervadono i suoi lavori. Pippo Delbono è il figlio virtuale del teatro crudele e visionario di Artaud, epigono magnifico del suo teatro del delirio e come Artaud sa scuotere la nostra apatia, le nostre comodità.
Anche in questo Orchidee, che ha appena debuttato in Prima Nazionale al Festival Vie di Modena - forse ancora troppo abbozzato per essere definito uno spettacolo compiuto- il regista scava nella sua autobiografia e tratteggia uno straziante poetico ritratto della madre negli ultimi attimi di vita. Un teatro fatto di membra sudate, di corpi reali che trasfigurano emozioni, di concetti cerebrali contaminati da una disperazione animale che ogni sera inchiodano il pubblico alle sedie, quasi incredulo di quanto la "finzione" del teatro possa generare, con umili mezzi, grandi e vere emozioni.
Orchidee è un salutare antidoto all'anestesia cui siamo sottoposti, ogni ora, giorno dopo giorno. Perché il teatro deve scuotere, deve fare male, e allo stesso tempo emozionarci attraverso la bellezza delle scene e la capacità maieutica del regista, sempre presente in scena, come un nuovo Kantor. Con lui riscopriamo la potenza di questo strumento, nato come rituale elaboratore di miti e di tragedie, finendo magari per inorridire della nostra stessa assuefazione. Qualcosa di cui possiamo essere infinitamente grati a Pippo e a tutta la sua straordinaria Compagnia.
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Orchidee di Pippo del Bono
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