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FILM

Il niente visto da Sorrentino

I personaggi sono macchiette della mondanità contemporanea, la trama è un semplice pretesto che cede il passo a un'innegabile maestria cinematografica, le stesse parole sono inutili in confronto alle immagini. La grande bellezza è l'invenzione di una forma artistica capace - involontariamente mettendo in pratica un auspicio di Houellebecq - di rappresentare il vuoto


di Marinella Doriguzzi Bozzo


La grande bellezza si apre con una citazione da Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline: "Viaggiare... fa lavorare l'immaginazione... il viaggio è interamente immaginario... ecco la sua forza... basta chiudere gli occhi". Tuttavia, poiché il protagonista de La grande bellezza è uno stanzialissimo scrittore che da quarant'anni non esercita più in quanto "non si può scrivere sul niente", forse sarebbe stata più adatta una frase di Michel Houellebecq: "La forma romanzesca non è concepita per rappresentare l'indifferenza o il nulla; bisognerebbe inventare una articolazione più piatta, più concisa e più smorta".
 
E Paolo Sorrentino, grande regista, autore di un romanzo seducente candidato allo Strega nel 2010, nonché responsabile o corresponsabile delle sceneggiature dei suoi film, ci prova a modo suo facendo l'opposto, ben conscio che la parola precede sempre la rappresentazione, perché quasi tutto il cinema si radica su copioni già scritti. Quindi depura l'allappante lezione di Terrence Malick (L'albero della vita, 2011) cercando esplicitamente di esasperare le immagini e di fonderle con l'impianto narrativo e il commento verbale, in una sorta di ipertrofico documentario artistico su una trama che non c'è in quanto si sostanzia di vite effimere che a loro volta tentano di farsi cinema; con mirabili esiti scenografici, esili e ridondanti risvolti letterari e una gelida assenza di commozione, anche quando si manifesta in pianto vero o simulato, ed è rivolta a delle assenze improvvise o a un passato perduto che diventa memoria di un dettaglio. Non diversamente dalla fine de L'Educazione sentimentale di Gustave Flaubert, in cui tutta un'esistenza ritrova l'unico momento di felicità significante in una fuggevole visita giovanile ad un bordello.
 
Film di paradossi e di ossimori dunque, non racconto ma piuttosto spettacolare collazione di stazioni pittoriche ed architettoniche, fluidificate solo in parte da una sorta di corpo a corpo impari fra il troppo monologante Jep Gambardella, intellettuale mondano che si lascia vivere perché non sa fare di meglio, la sua involontariamente asservita corte e l'eterna Roma in cui "confluiscono tutti i peccati e tutti i vizi per esservi glorificati" non tanto secondo il ben più partecipe Fellini, quanto su apodittica testimonianza di Tacito (Storie, anno 100 dopo Cristo).
 
L'incipit è magnifico: il Gianicolo con il suo colpo di cannone a dividere in due il giorno, una folla di turisti giapponesi che guardano su comando, un nipponico solitario che si stacca dal gruppo e scatta una foto ad un panorama sfocato dalla calura; poi crolla stecchito per fatalità, sindrome di Stendhal o vendetta postuma di Céline, che tanto predicò sull'invasione gialla, non prevedendo che nel frattempo ci sarebbero stati gli arabi, con i loro soldi e le loro donne velate. Sullo sfondo, musica classica, sacra e contemporanea, che lascia bruscamente il posto a canzoni pop e dance. E ai volgari ballerini del potere o dell'effimero che si cancellano reciprocamente, danzando o cazzeggiando con  frasi stanche o puntute su terrazze privilegiate, per poi ricoverarsi all'alba, mentre la città dei pensionati e delle suore si risveglia come se fosse sempre il primo giorno del creato.
 
Gli episodi si susseguono, i personaggi principali si ripresentano sbozzati da tic verbali o fisiognomici per dare corpo ad una vuota via crucis tutta mondana, molta cronaca odierna viene sublimata e nemmeno troppo implicitamente: la denuncia sociale o il messagggio anni settanta sembrano a loro volta volgari di fronte al tema della bellezza e del suo rovescio. Piuttosto la sottolineatura sembra essere un'altra, inerente un'umanità che ha prodotto un'estetica ineffabile senza che questa abbia saputo tramutarsi in etica, non tanto morale o religiosa, quanto civile; al punto che è dolorosamente stridente assistere all'usurpazione di tanti magnificenti incanti di statue, di quadri, di palazzi, di panorami da parte della stessa razza di bipedi che un tempo li produsse e oggi li vive in un'atonale incoscienza.
 
Sorrentino, fino a L'amico di famiglia (2006) ha saputo inventare film di grotteschi ma plausibili protagonisti, saldamente ancorati a trame forti nutrite di  grandi e originali armonie visive. Poi si è  un po' smarrito con This must be the place forse soppraffatto dal suo primo respiro internazionale, debole proprio nell'avventura del viaggio, ma riscattato ancora una volta da una singolare, personalissima forza immaginifica. Qui invece sembra richiamarsi almeno in parte ai contrappunti umani e corali de Il divo, senza che la fantasia sappia però emulare la realtà di un personaggio come Andreotti, genialmente reso con il triplo salto mortale della Storia, della cronaca e della poesia.
 
Invece, in questa ultima opera, il  filo conduttore è un pretesto, i bravi attori sono delle macchiette, talvolta mostruose, talvolta ironiche, talvolta in grado di strappare un sorriso amaro, senza mai andare oltre, fagocitate da quella stessa città "in cui vivere significa perdere la vita" (ancora Tacito); le parole sono vagamente sentenziose e quasi superflue, perchè, in quanto appunto parlate, sono impotenti rispetto alla forza silente delle immagini, e perdono di profondità per accucciarsi spesso nei recessi dell'ovvio. Si rimane storditi, ci si ripromette una seconda visione, e tuttavia si ha il sospetto che sarebbe inutile, perché non c'è altro da scoprire in quanto non si poteva dire di più. Quasi certamente meglio, con maggior concisione e compattezza, evitando l'incombere di un manierismo che sembra insistere sulle note di una innegabile bravura, però così compiaciuta da smarrirsi a volte  fra i luoghi comuni dei pini e delle fontane di Respighi.
 
In tanta esplicita abbondanza di talento, che non è solo il frutto di scorci sapienti sull'esistente, ma di vere e proprie reinvenzioni del modo di prenderne coscienza, lo scrittore si perde e fa torto al regista, erigendo a tavolino un immenso monumento marmoreo per stranieri, ignari dei nostri personaggi  televisivi e di parecchie sottocommedie all'italiana; monumento reso frigido da un'intuizione ripetuta che finisce per tradire la propria stessa  etimologia, dal verbo latino intueor: entrare con lo sguardo dentro le cose, rappresentando una forma di coscienza cognitiva non spiegabile a parole, per lampi improvvisi e imprecisabili, che colpiscono al cuore.



Tags: la grande bellezza, Marinella Doriguzzi Bozzo, paolo sorrentino, recensione, roma, toni servillo,
24 Maggio 2013

Oggetto recensito:

LA GRANDE BELLEZZA, di Paolo Sorrentino, Italia-Francia 2013, 150 minuti

giudizio:



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