Se in scena veste i panni del Gran Mago, il primario pazzo del Sanitario della Rocca di Palermo, fuori Vincenzo Perrotta è il regista e l'autore di questo adattamento di Diceria dell'untore, il romanzo di Gesualdo Bufalino. Il protagonista Colui che dice io (un convincente Luigi Lo Cascio) racconta come è sopravvissuto alla malattia e all'amore
di Cristina Geninazzi
Diceria dell’untore è il romanzo d’esordio di Gesualdo Bufalino, che gli valse il successo e il premio Campiello nel 1981, e dal quale sono stati tratti un film nel 1990 e una interessante rivisitazione teatrale, firmata dal bravo Vincenzo Pirrotta. Ambientato nel sanatorio della Rocca sulla alture di Palermo la diceria è una testimonianza, il tentativo di un riscatto del protagonista, che, unico fra molti, è sopravvissuto all’“apprendistato di morte” della malattia; guarito e sbigottito, tornato vivo tra i vivi, ricorda e fa rivivere nel racconto i suoi compagni di ricovero.
I concetti della vita spiata da un pertugio e la malattia come un tunnel che conduce inequivocabilmente alla morte, sono ben resi nell’allestimento del Teatro Stabile di Catania, che coinvolge come protagonista l’abile Luigi Lo Cascio. Con una parlata svelta e pulita, ed una recitazione chiara e mai affettata, l'attore accompagna lo spettatore nel caleidoscopico mondo del sanatorio, popolato da personalità uniche e a volte bislacche, unite dal medesimo destino ma determinati ad affrontarlo nei modi più diversi.
Fra questi spicca il Gran Mago (Vincenzo Pirrotta), il cinico e beffardo primario, anch’esso malato terminale, regista – nel gioco scenico, doppiamente - di ciò che accade nella clinica. Le sue apparizioni sono folgoranti tanto quanto le sue argomentazioni sulla bassezza del genere umano e sull’esistenza di un Dio colpevole e sadico. Goliardico e imprevedibile in scena è reso come un mattatore buffonesco, una stella dell'avanspettacolo che sciorina amarezze e crudeltà di ogni sorta con la scusa della battuta.
Un coro di sette attori scandisce con canti e "coreografie" di gruppo ora quel che accade nel mondo dei vivi, fuori dalla Rocca, ora lo smarrimento dei pazienti reclusi nel sanatorio, secondo una partitura fisica e vocale precisa e interessante. Da questo affresco a tratti si distinguono alcuni ospiti e amici del protagonista: Padre Vittorio che nello slancio di testimoniare la sua fede nella malattia rimane contagiato dallo scetticismo, l’amico Sebastiano, burbero e secco.
In questo panorama maschile, interrotto solo da brevi incontri con professioniste dell’amore, Colui che dice io, vive come un’apparizione la comparsa della giovane e diafana Marta, intravista in una rappresentazione teatrale tra i pazienti della Rocca. Intestardito in questa sua infatuazione farà di tutto per avvicinarla e conoscere da vicino la vita travagliata di questa ex-ballerina della scala, fino al punto di partire con lei lontano dal sanatorio per qualche giorno.
Nella magistrale scena finale dalla potenza intensa ed essenziale di un dipinto, il destino irrompe nella breve vacanza dei due nuovi innamorati: sfigurata dalla tisi Marta muore tra le braccia del protagonista, che invece sente crescere in se la forza della guarigione e della vita che rinasce. La musica dal vivo, con i musicisti svelati al pubblico da sapienti giochi di luci, arricchisce l’intensità e la potenza lirica di uno spettacolo già pieno e coinvolgente, una struttura scenica interessante e un andamento teatrale riuscito: in una parola, da vedere.
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Diceria dell'untore, regia e adattamento di Vincenzo Perrotta
Tratto da: Diceria dell'untore, di Gesualdo Bufalino, Bompiani 1981
Visto a: Torino, teatro Carignano
Prossimamente: fino all’11 marzo al Teatro Eliseo di Roma
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