ATTUALITA' - CINA
L'ultimo treno del migrante
Last train home, film debutto del regista sino-canadese Lixin Fan, racconta la grande migrazione del Capodanno cinese. Ogni anno 200 milioni di lavoratori dell'industria tornano dalle città al paese d'origine. Un'occasione per gettare luce, con Agichina24, sulle condizioni di vita dei mingong e dei loro figli
di Annarita De Gaetano
Changhua and Sugin Zhang sono alla stazione ferroviaria in attesa di un treno che li porterà nel loro villaggio natale. Ad attenderli ci saranno i loro due figli che da anni vivono con la nonna: loro, i genitori, hanno dovuto lasciare a casa per trasferirsi a Canton, a lavorare in una fabbrica di indumenti. È il Capodanno cinese, l’unica occasione per la maggior parte dei lavoratori migranti di ricongiungersi alla propria famiglia, e quell’ultimo treno rappresenta tutto. Non trasporta solo persone, ma anche sogni, speranze, desideri, i pochi momenti felici di un’esistenza vissuta da migrante. Dopo un viaggio di 48 ore, i Zhang arrivano a casa, ma la felicità presto lascia il posto all’amarezza: Qin, la figlia diciassettenne (e arrabbiata) della coppia, ha deciso di lasciare la scuola e di trasferirsi a Canton per cercare lavoro, una parola che il più delle volte è sinonimo di sfruttamento, sacrificio e privazione per un contadino cinese. Gli Zhang sono sottoshock. Faranno di tutto per strapparla al quel destino che avrebbero mai desiderato per lei, ma Qin non è più una bambina, è cresciuta senza di loro ed è pronta a scaricare loro addosso tutta la sua frustrazione.
Gli Zhang non sono una coppia reale, ma i protagonisti di Last train home, film debutto del regista sino-canadese Lixin Fan. La loro storia, però, è simile a quella di molti cinesi. Il film, vincitore del Sundance Film Festival 2010, è uno spaccato di realtà della nuova super potenza mondiale: 200 milioni di cinesi ogni anno, alla vigilia della Festa di Primavera, si ritrovano in fila alle biglietterie delle stazioni ferroviarie alla ricerca di un posto sul treno che li riporterà a casa. Lo spostamento dei cinesi in occasione del Capodanno costituisce la più grande migrazione annuale di sempre. Non solo in Cina, ma anche nel resto del mondo. “Non tornare a casa per festeggiare il Capodanno equivale ad avere una vita senza senso”: a parlare è uno dei tanti che si accalcano disperati uno sull’altro nel piazzale della stazione: senza seguire una fila, procedono ammassati finché non mettono piede su quel treno.
Il lungometraggio, intimo e rivelatore di questo lato del Paese di Mezzo fino a oggi poco analizzato, mostra aspetti della cultura cinese che aprono nuovi interrogativi sull’evoluzione della società negli ultimi tre decenni. Quella dei mingong, i lavoratori migranti che dalle campagne si spostano nelle città nella speranza di una vita migliore, è una migrazione che dalla metà degli anni ’80 coinvolge sempre più lavoratori. Costretti a stare al passo con i rapidi cambiamenti della società contemporanea e allo stesso tempo consapevoli di essere il motore dello sviluppo economico del Paese, i mingong costituiscono la grande fabbrica del mondo.
Lo squilibrio tra le zone costiere industrializzate e l’entroterra rurale continua a farsi sempre più significativo: secondo l’Istituto nazionale di statistica, nel 2009 il reddito medio di un residente urbano ammontava a 17.175 yuan (circa 1.800 euro), contro i 5.153 (500 euro) di un abitante rurale. Si tratta della più grande disparità economica dall’introduzione delle prime riforme del 1978, e costituisce da anni una delle maggiori preoccupazioni della leadership di Pechino. Ridurre le differenze sociali è ormai necessario per evitare disordini e mantenere la stabilità nel Paese, per costruire quella “società armoniosa” recentemente ribadita dal primo ministro Wen Jiabao in apertura dell’annuale Assemblea nazionale del popolo.
Il punto di partenza per riequilibrare la società sembra risiedere nella riforma dello hukou, il sistema di residenza obbligatoria. Introdotto da Mao nel 1958 al fine di evitare un’urbanizzazione troppo disordinata, lo hukou vincola i cinesi al proprio luogo di nascita assicurando i servizi di base come l’istruzione gratuita per i figli e l’assicurazione sanitaria. Per quanto limitante e penalizzante, il sistema non è riuscito a vincere la volontà e la necessità di milioni di cinesi delle zone rurali – pronti a rischiare la vita o a vivere in condizioni disumane – di spostarsi nelle città alla ricerca di un lavoro in fabbrica o nei cantieri, col risultato che oggi milioni di mingong si ritrovano di fatto a vivere come cittadini di serie B, in quanto non residenti. Cambiare residenza da una città all’altra è possibile sulla carta, ma è molto difficile nella realtà. Molti scelgono poi di non registrarsi perché, seppure riuscissero ad ottenere il certificato di residenza urbana e potessero quindi accedere ai servizi forniti dall’autorità municipale, perderebbero i diritti sulla terra e la casa lasciate in campagna.
A fare le spese di questo sistema sono principalmente i bambini: una delle conseguenze più immediate e gravi delle restrizioni imposte dallo hukou è la disgregazione della maggior parte dei nuclei famigliari: spesso genitori e figli sono di fatto costretti a vivere lontani per moltissimo tempo. Secondo le stime, sono oltre 70 milioni i bambini e i ragazzi lasciati nei villaggi di origine presso nonni e parenti (nel migliore dei casi), o addirittura da soli. Sono i cosiddetti “bambini lasciati indietro” (liushou ertong): molti di loro soffrono della sindrome dell’abbandono, perché vedono i genitori solo una o due volte l’anno, o addirittura aspettano anni primi di riabbracciarli. Un fenomeno dai risvolti allarmanti, se si considera che spesso i figli lasciati a casa stentano negli studi – la protagonista del film ne è l’emblema – sono vittime di abusi e incidenti domestici, o finiscono nella criminalità organizzata.
A confermare questa tesi arrivano i dati della Corte Suprema che rivelano che dal 2000 vi è stato un incremento annuale del 13% della delinquenza giovanile, e che nel 70% dei casi si tratta di figli di migranti. Finora il governo ha affrontato il problema istituendo collegi o inviando funzionarie e insegnanti nei villaggi perché si pendano cura di questi bambini, mentre alcune compagnie telefoniche hanno creato carte a basso costo per facilitare la comunicazione con i genitori.
La situazione non sembra migliorare molto nemmeno per quei bambini che riescono a seguire i genitori nella nuova ‘avventura’ e che si trovano già in tenera età a dover affrontare le discriminazioni di un sistema scolastico che non ha posto per i figli dei migranti, esclusi dalla maggior parte delle scuole delle grandi città perché non riconosciuti come residenti. Nonostante la popolazione urbana viva in una prosperità costruita col sudore dei lavoratori migranti, questi non vedono garantiti i propri diritti, primo fra tutti quello dell’istruzione. Per questi lavoratori spesso le scuole private rappresentano l’unica soluzione. Si tratta per lo più di scuole gestite da volontari o da migranti malpagati che sono costretti a lavorare con mezzi minimi e in strutture alle volte non autorizzate che rischiano la chiusura da un momento all’altro. Nonostante la precarietà, il prezzo della retta è alto: le tasse scolastiche arrivano a 500 yuan (50 euro) all’anno, ma è l’unico modo per avere accesso a un’istruzione di base.
È una vita dura, fatta di abnegazione e precarietà, che non risparmia nemmeno chi possiede un buon livello di istruzione, come evidenzia Lian Si, sociologa dell’Università di Pechino e autrice del libro che ha portato il tema all’attenzione della società, La tribù delle formiche (Yizu). Un milione di neolaureati sono arrivati in città e contrariamente alle loro aspettative si sono ritrovati a vivere nelle periferie in condizioni spesso al limite dell’umano. Secondo Lian questi giovani rappresentano forse l’aspetto più drammatico del complesso fenomeno migratorio cinese: cambiano lavoro almeno due volte l’anno senza riuscire a risparmiare nulla dei circa 2mila yuan (200 euro) del loro stipendio e vivono ammassati in stanze di dieci metri quadrati, dove per qualche decina di euro al mese riescono ad assicurarsi un posto in un letto a castello.
Caso emblematico di questo stile di vita è Tangjialing, un sobborgo ad appena 20 km da piazza Tian’anmen che potrebbe somigliare ai barrios di Città del Messico o alle periferie di Città del Capo, con blocchi di cemento di 4 o 5 piani che si concentrano uno dietro l’altro, separati da vicoli stretti e sporchi. In questa zona il numero di abitanti è cresciuto da 3mila a 50mila nel giro di dieci anni. Tangjialing è ormai noto per essere il “formicaio” di Pechino, ma la situazione sta cambiando. Situato ad appena un chilometro dalla zona hi-tech dove hanno sede società di computer come Baidu, Lenovo e Ibm, il territorio di Tangjialing fa gola a molti imprenditori che hanno già avanzato proposte ai latifondisti per rilevare le loro proprietà. Così, mentre questi ultimi continuano le trattative con il governo locale e gli agenti immobiliari per ricavare il massimo del profitto, i migranti sono costretti a cercarsi un altro formicaio.
Il senso di frustrazione di chi sa di aver contribuito al grande successo del Dragone e che tuttavia non riesce a prendervi parte accomuna l’intera Cina e oggi, grazie ad un maggior livello di istruzione e a un più facile accesso al web, i migranti hanno la possibilità di parlare al mondo in prima persona. Zhou Shuheng è uno di loro. Autore di un romanzo in gran parte autobiografico pubblicato su Internet lo scorso ottobre, ha riscosso un enorme successo raccontando le esperienze vissute in prima persona come mingong. “Il romanzo di Zhou rappresenta la voce della nuova generazione di lavoratori migranti che non è disposta a rimanere in silenzio”, spiega Hu Rong, professore del dipartimento di sociologia dell’Università di Xiamen.
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02 Luglio 2010
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