Grande scienziato o cialtrone? Socialista o reazionario? Dedito alla causa degli ultimi o razzista? A più di cento anni dalla morte non si placano le polemiche sul fondatore dell’antropologia criminale, che pretese di leggere in crani e pollici le cause della delinquenza
di Angelo d'Orsi
Maschera mortuaria di criminale (fine Ottocento), courtesy Museo di Antropologia Criminale; a fianco, Cesare Lombroso
L’ultima, per ora, frontiera di un revisionismo straccione è la contestazione, recentemente inscenata da improbabili associazioni neoborboniche, contro il Museo di Antropologia criminale di Torino, intitolato a Cesare Lombroso: una contestazione che si è spinta nientemeno che a chiedere la chiusura di una istituzione, quel Museo, appunto, che non solo è di straordinaria ricchezza, di sorprendente, talora inquietante multiversità, ma è praticamente unico nel suo genere (leggi la nostra recensione).
Che Cesare Lombroso sia stato un bell’esempio di contraddizioni è fuori di dubbio. L’ebreo (laicissimo) di Verona che trova, con difficoltà, la sua fortuna di scienziato innovatore – spesso temerariamente innovatore – sotto la Mole, fu uno studioso che, dominato dal culto romantico della scienza, si impelagò in vicende che di scientifico avevano poco, finendo per avvalorare pensieri magici e superstizioni, anche se pretendeva di battere in breccia gli uni e le altre alla luce della scienza positiva.
Fu un borghese, la cui bella dimora, ritrovo accogliente di socialisti, liberali, conservatori, e reazionari della più bell’acqua, vide in atto una piccola, ma agguerrita e sempre rinnovantesi comunità di letterati, scienziati, artisti, giornalisti, amministratori, e politici.
Progressista militante, iscritto al Partito del “sol dell’avvenire”, sostenne la campagna elettorale del suo amico-avversario politico Gaetano Mosca, lo scienziato politico che Gobetti avrebbe definito, efficacemente, “conservatore galantuomo”; consigliere comunale a Torino per i socialisti, il Lombroso ruppe fragorosamente con il Psi, e certo non “da sinistra”; eppure rimanendo sempre a fianco del Partito, sempre considerandosi e proclamandosi “socialista”.
In effetti, questa figura emblematica del cosiddetto “socialismo dei professori”, che con il marxismo poco aveva a che fare, fu, come la gran parte dei suoi sodali, uomo dagli empiti generosamente idealistici, e dalla sincera dedizione alla causa degli umili, ai quali, come esponente di rilievo della “medicina sociale” dedicò, attraverso lunghe ricerche, una attenzione peculiare e costante: basti citare lo sforzo messo in atto per debellare la pellagra, malattia che mieteva vittime a iosa nei ceti contadini. Che le tesi scientifiche del Lombroso fossero sbagliate, poi, è altro affare; ma certo egli si impegnò, con intuizioni degne di nota, con zelo e generosità anche in quello studio.
Insomma, un quadro sfaccettato, che fa di Lombroso un personaggio degno della massima attenzione: specialmente nella sua incredibile volontà di innovatore nella ricerca, sovente al limite, o oltre quel limite, dell’avventurismo parascientifico. Psichiatra, medico legale, e soprattutto antropologo criminale – il primo, fondatore di una scuola che ebbe gran risonanza fuori dei patrii confini – Cesare Lombroso pretese di misurare crani e pollici, arcate sopracciliari e alluci, per dedurne improbabili conseguenze comportamentali, e stabilire, attraverso dati fisici, inesorabili destini di puttane e delinquenti, pazzi e assassini.
Ebbe buon gioco Antonio Gramsci a mostrare la debolezza di quello scienziato, il quale, tra l’altro, insistendo sull’atavismo – e dunque dipingendo il “delinquente nato” come un prodotto genetico – obliterava tranquillamente la connotazione socioeconomica che il socialismo dava alla criminalità (come pure si scriveva continuamente sulla stessa stampa socialista a cui l’antropologo collaborava), finendo per diventare, il progressista Lombroso, l’esponente di una linea non dissimile da quella del peggior perbenismo borghese fatto di “pseudocultura”.
E fissato sui caratteri somatici, ereditari, che dal fisico si riverberavano a livello psichico, il nordico Lombroso non seppe evitare, talora, le trappole di un razzismo “democratico”, espresso in forme morbide, quasi sornione, ma in fondo anche quello contribuì a creare un senso comune antimeridionalistico. E non mancano anche tratti di pesante misoginia, nell’opera di quest’uomo che ebbe due figlie, Gina e Paola, entrambe di grande valore nei rispettivi campi, le quali ebbero un culto morboso per il padre, e che sposarono due suoi allievi, Guglielmo Ferrero e Mario Carrara, maestri di democrazia e di antifascismo, oltre che studiosi rispettabili.
E tutto ciò – misoginia e razzismo compresi – in nome della scienza: insomma, Lombroso fu deviato dalla retta via della scienza precisamente dal suo scientismo. Forse qualcuno avrebbe dovuto sussurrargli, a suo tempo, il motto gianduiesco, che Norberto Bobbio amava ripetere, con civetteria: “Esageruma nen!”.
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