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SCIENZA

La donna che studiò se stessa

Sulla rivista scientifica Body and Society la ricercatrice Magdalena Harris indaga sulla condizione dei portatori di epatite C


di Pippo Russo


epatite.JPGUna metodologia per la ricerca sociale di se stessa. È questa la curiosa esperienza vissuta da Magdalena Harris, ricercatrice neozelandese della New South Wales University. Nel numero di dicembre 2009 di Body and Society (rivista trimestrale edita dalla Sage), la Harris ha pubblicato un articolo su un tema la cui delicatezza si rivela già a partire dal titolo: Injecting, Infection, Illness: Abjection and Hepatitis C Stigma
 
Oggetto dell’articolo sono i risultati di un’indagine condotta da Harris attraverso l’utilizzo di uno strumento qualitativo per la raccolta di dati, le interviste in profondità: condotte su un campione di 40 persone affette da epatite C, avevano l’obiettivo di fare emergere le condizioni di stigmatizzazione cui i malati sono soggetti nel momento in cui dichiarano la propria patologia. La percezione comune che vede l’epatite come effetto dell’uso di sostanze stupefacenti (e per di più di quelle assunte via iniezione) determina due conseguenze: da un lato coinvolge in tale processo di stigmatizzazione anche la quota rilevante di portatori della patologia che non l’hanno acquisita attraverso la tossicodipendenza; dall’altro ricaccia gli individui che stanno effettuando un percorso di reintegrazione dentro un senso di marginalità.
 
I risultati emersi dalle interviste condotte da Harris confermano l’ipotesi di partenza: cioè, che l’essere portatori di epatite C espone alla discriminazione, a causa di un doppio pregiudizio: rischio di contagio (eventualità pressoché inconsistente) e colpevolizzazione del deviante (come di norma viene considerato il tossicodipendente). Una discriminazione, fra l’altro, esercitata anche dallo stesso personale sanitario.
 
Ma l’elemento metodologicamente più interessante sta nel particolare rapporto fra la ricercatrice e l’oggetto di ricerca. Magdalena Harris è infatti essa stessa un’ex tossicodipendente affetta da epatite C. Lo dichiara in un lungo passaggio dell’articolo, nel quale parla dei suoi trascorsi con le droghe e descrive i processi di marginalizzazione subiti durante quel periodo della sua vita. È stato proprio questo percorso esistenziale a spingerla sul terreno di studio della sociologia sanitaria.
 
Dunque, la ricercatrice ha provato sulla propria pelle quella condizione che per lei sarebbe poi stata un oggetto di ricerca. Di più: questo capitale d’esperienza negativa si è convertito in capitale positivo nel momento di costruire un rapporto di fiducia con gli intervistati. I quali, sottoposti a un’intervista in profondità, dovevano parlare diffusamente di se stessi. In casi del genere la diffidenza può essere un ostacolo insormontabile per la riuscita della rilevazione. Dichiarando di condividere con gli intervistati la condizione di salute, e di avere un passato di tossicodipendenza in comune con molti di loro, la Harris ha ottenuto di costruire un rapporto di empatia, facendosi percepire, da un gruppo di persone abituate a sentirsi messe ai margini, come “una di loro”.
 
Un caso forse unico in cui la dimensione personale e esistenziale diventa elemento cruciale di ricerca. I custodi dell’ortodossia metodologica storceranno il naso, ma per fortuna la ricerca segue l’ansia di scoperta anziché occuparsi della burocratica amministrazione dei metodi.



Tags: Body and Society, emarginazione, Epatite C, Magdalena Herris, Pippo Russo, Pippo Russo, ricerca, scienza, stigmatizzazione, tossicodipendenza,
06 Aprile 2010


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