Luar, l'ultimo album di Bebo Ferra, si ispira ai samba e a Egberto Gismonti
di Dario De Marco
Bebo Ferra, chitarrista sardo, ha un dono che è tipico dei grandi: far sembrare semplici le cose complicate. Le sue composizioni hanno melodie fresche e naturali, arie facili e cantabili quando non addirittura fischiettabili. A un ascolto più attento rivelano però tessiture armoniche originalissime e strutture elaborate: in questo ricordano i pezzi di Antonio Carlos Jobim, che era capace di far danzare decine di accordi ingarbugliati sotto a un samba fatto di una nota sola.
Ed è proprio al Brasile che fin dal titolo è ispirato Luar, l’ultimo disco di Bebo Ferra: più che il Brasile delle sincopate bossanova, però, ricorda da un lato quello della semplicità ritmica dei samba originari (Trem das cores o I segreti del re, dove risuonano echi di Pixinguinha) e dall’altro quello modernissimo di Egberto Gismonti con le sue atmosfere incalzanti (Io ti salverò). Né quella brasileira è l’unica sponda toccata: c’è una lunga digressione araba (L’alba di Yousif), ci sono samba lenti che impercettibilmente scivolano in tango (Niño), ci sono tappeti di archi molto europei, c’è il rigore quasi minimalista della bonus track, c’è naturalmente nell’improvvisazione un fraseggio tipico jazz.
Ma naturalmente siamo oltre il jazz. Innanzitutto nella struttura dei pezzi, ben lontani dalla sequenza classica tema-assolo-assolo-assolo-tema: qui non solo le parti scritte sono più d’una, non solo si alternano con vivacità ai momenti improvvisati esordendo a volte anche a metà pezzo, ma spesso sono proprio fuse insieme agli assoli, fornendo una sorta di “accompagnamento tematico” (come in Incanto o nel bel tre quarti che apre il disco, Sole d’aprile). Affatto inusuale è anche la formazione, in cui la chitarra è sì affiancata da piano e contrabbasso, però manca la batteria o qualsivoglia percussione, mentre c’è un gustoso violoncello. E’ il sound Egea, l’etichetta che è un po’ l’Ecm de noantri: dove quella propugna un jazz-ambient nordico e rarefatto, questa porta avanti da anni un jazz cameristico mediterraneo non meno raffinato ma più cosmopolita e sanguigno.
Da ultimo, ma non da meno: la presenza di Rita Marcotulli, pianista in cui convivono a meraviglia melodia e sperimentazione, dà al disco una marcia in più. L’amalgama mai facile di piano e chitarra – sul quale ad esempio Pat Metheny e Brad Mehldau, non proprio due pischelli, hanno recentemente dato il peggio di sé – riesce alla grande, e i due suonano a volte come uno strumento solo.
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