Bollati Boringhieri ripubblica Sul giornalismo, del padre del famoso premio. Il saggio risale al 1904, ma le sue riflessioni sul mestiere sono tutt'altro che sorpassate
di Dario De Marco
Nelle scuole di giornalismo, per dare un’idea di quanto sia cambiato il mestiere di scrivere (e leggere) le notizie in poco più di un secolo, fanno vedere i quotidiani del 30 luglio 1900. Il giorno prima, al termine di una manifestazione sportiva, il re d’Italia Umberto I era stato ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci. Il fatto, che oggi prenderebbe la totalità delle pagine di un giornale - tra cronaca, commenti, retroscena, testimonianze, interviste, reazioni, scenari futuri - viene da molti giornali dell’epoca riportato in un solo lungo articolo dall’andamento surreale: vi si descrive in modo piano e compassato tutta la giornata del sovrano, dalla sveglia mattutina alla consueta passeggiata, dal pranzo alla decisione di assistere all’esibizione ginnica, dal sereno svolgimento di quest’ultima ai commenti di routine del re; infine nelle ultime tre righe, una frase tipo “purtroppo questa splendida giornata è stata funestata da un increscioso incidente: il Re è morto!”. Qualche altro particolare, qualche espressione di sentito cordoglio, e fine dell’articolo.
Ora, direte voi, che c’entra questo con Pulitzer? Già, perché la maggior parte di noi quando sente questo nome, la prima parola che gli associa è premio: premio Pulitzer, quello lì ha vinto il Pulitzer, per questa bagatella che hai scritto cosa ti aspetti che ti diano, il Pulitzer? Non è obbligatorio sapere che era una persona in carne e ossa: premio Pulitzer, come premio Oscar, che forse Oscar era una persona in carne e ossa? (Sì, ma questa è veramente un’altra storia). Ma anche se lo sappiamo che era una persona, così d’istinto ci viene di associarlo all’epoca del grande giornalismo d’inchiesta americano, Woodward e Bernstein che fanno cadere Nixon, è la stampa bellezza, good night and good luck, insomma un tempo passato ma tutto sommato recente e vivo. E invece Joseph Pulitzer era nato nel 1847, quando scriveva queste pagine – ora pubblicate da Bollati Boringhieri con il titolo Sul giornalismo – Umberto I era morto da appena quattro anni, e quando morì a sua volta correva l’anno 1911. In pratica, la preistoria.
Ecco perché l’attualità del suo discorso è ancora più impressionante, se paragonata a quelle ingenue prime pagine a lui contemporanee. Pulitzer parte dalla necessità di istituire delle Scuole di giornalismo, cosa che aveva appena fatto alla Columbia University (e che allora come oggi viene guardata con scetticismo da chi sostiene che “questo mestiere va imparato sul campo”). Ragionando però su cosa debba entrare nella formazione di un giornalista (tutto!), è facile passare a definire che cosa debba essere la professione di giornalista. Qui tensione etica e lezione pratica fanno un tutt’uno: perché dire che i giornali devono fiutare e portare allo scoperto le magagne e gli inciuci delle consorterie politiche e dei potentati economici, così evitando che ce ne siano di nuovi e contribuendo a costruire una società più libera e giusta, significa indicare al tempo stesso un elevato obiettivo morale e una quotidiana linea di azione. Pulitzer arriva a scrivere che “la stampa è l’unico grande potere organizzato a sostenere la causa della virtù civica in modo attivo”.
Beata ingenuità – sembra già di sentire i commenti dei servi travestiti da cinici – candore dei tempi andati. Invece no, perché a ben guardare le prescrizioni del grande giornalista, se sono fuori tempo è perché appartengono al futuro, non al passato. Due esempi. Pulitzer sostiene che, oltre e dopo le Scuole, i giornalisti debbano costituire un ordine professionale “per sviluppare un orgoglio di categoria che permetterebbe loro di lavorare di concerto al servizio del bene pubblico, e che metterebbe le pecore nere della professione in una posizione alquanto scomoda”. Oggi, un secolo dopo, l’Ordine esiste ma non pare aver raggiunto lo scopo, come dimostra la realtà quotidiana in cui chiunque può sparare le più grandi fesserie e la punizione è che diventa direttore di tg. Allora, Pulitzer sbagliava? Al contrario, indicava una necessità fortissima che non ha ancora trovato soddisfazione.
Oppure: Pulitzer scrive che i giornali devono essere indipendenti da interessi economici, sia nel senso che l’editore non deve condizionare la redazione, sia nel senso che lo stesso editore non dovrebbe avere altri interessi imprenditoriali in gioco. Sono due snodi centrali del giornalismo contemporaneo: l’assenza di cosiddetti “editori puri” e il peso di considerazioni “non giornalistiche” (occhio di riguardo non solo all’editore ma anche agli investitori pubblicitari) nelle scelte di redazione. Ebbene, anche qui: sono battaglie combattute e perse (e quindi appartenenti al passato) o non piuttosto problemi mai veramente affrontati, e da prendere di petto in un futuro il più vicino possibile?
Nella postfazione di Mimmo Càndito (da sempre nostro collaboratore e amico caro, perciò che è bellissima e giustissima non lo possiamo dire) il discorso di Pulitzer è inquadrato alla luce di quanto è cambiato nei cento e passa anni trascorsi: la radio la tv e internet hanno sconvolto il mondo dei media (e il mondo tout court), sicché oggi il giornalismo è in una fase di crisi per alcuni irreversibile. Eppure. Forse Pulitzer non poteva prevedere l’avvento del terribile tubo catodico, ma quando scrive che la pubblica opinione è pericolosamente volubile e manipolabile, sembra riferirsi più ai nostri tempi che ai suoi. E la stessa postfazione, di fronte a quanti sostengono un modello di informazione “dal basso” (Matt Drudge, e in Italia ad esempio Beppe Grillo, che si vanta di non leggere i giornali) in cui tutti siamo consumatori e al tempo stesso produttori di notizie, conclude recuperando quanto Pulitzer rivendica alla professione giornalistica: la funzione essenziale di “filtro di garanzia”, tanto più utile quanto più il flusso informativo diventa soverchiante. Che poi tutto questo debba essere applicato oggi, nel momento più difficile di sempre per i giornalisti, non è una constatazione rassegnata. È una sfida.
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JOSEPH PULITZER, SUL GIORNALISMO, BOLLATI BORINGHIERI, P. 129, EURO 10
Non c’entra (quasi) niente, ma leggete anche: Mark Twain, Libertà di stampa, Piano B edizioni. Il lato amaramente comico della questione: “I giornalisti onesti ci sono. Soltanto costano di più”
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