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CLASSICI DELLA LETTERATURA

Carducci il capomastro

Il premio Nobel a cui sono intitolate centinaia di scuole trattava la poesia come un cantiere edilizio: l'importante era scegliere i materiali e le tecniche migliori


di Giampaolo Rugarli

Illustrazione di Elide Gramegna


Questa rivista che non ha più carta
m’empie il core d’ambascia: come, senza
partire, immoti, finger che si parta.
E quel che scrivo è voce di un’assenza 
 

Giosuè Carducci, con buona probabilità, avrebbe iniziato così questo pezzo: forse non proprio con le parole usate da me, certo sarebbe riuscito a scovare rime migliori, nonché arcaismi, latinismi e grecismi a volontà. Però l’idea di scrivere una qualsiasi cosa destinata a volare nell’etere e a non assumere forma cartacea, lo avrebbe sconvolto. Si può capire: il Nostro, nato nel 1835 e morto nel 1907 (dopo essere stato insignito del premio Nobel), era uomo di altri tempi, e già la “vaporiera” gli sembrava un miracolo della scienza. Figuriamoci se avesse dovuto aggiustare i conti con l’elettronica! E, nel mio piccolo, anch’io, nato cent’anni più tardi, dall’elettronica mi sento intimidito. 
 
Nondimeno sarebbe riduttivo affermare che Carducci aveva scarsa comprensione per il nuovo: in realtà per Lui il nuovo non esisteva, come non esisteva l’antico, situandosi tutto in una dimensione atemporale, nutrita di libri possibilmente polverosi. Tant’è che leggere Carducci è il miglior sistema per imparare ad odiare la classicità. A comprova della insensibilità di Giosuè per il fluire degli anni e dei secoli, valga un sonetto caudato nel 1856, dove la coda è lunga un centinaio di versi: il componimento si intitola Alla musa odiernissima, e già il superlativo segnala la pessima disposizione d’animo del poeta nei confronti della poesia a lui contemporanea, paragonata a una sgualdrina di bordello. Il guaio è che, un anno dopo (1857), la sgualdrina accoglie nel suo emporio malfamato I fiori del Male di Charles Baudelaire. 
  
Un confronto Carducci-Baudelaire sarebbe insensato e anche un po’ vile: a me preme fare intendere quanto Carducci sia vecchio non solo adesso, ma già all’epoca del suo esordio, quando non si è accorto che il mondo e la vita sono diversi dai suoi farneticamenti. E’ un’incomprensione che non lo lascerà mai. E’ convinto di essere un poeta, né mai intenderà che la poesia non è un cantiere edilizio, dove tutto si risolve nella scelta dei materiali migliori e delle tecniche più confacenti. Non scrive ma fabbrica versi o, meglio ancora, come Ovidio affermava che quod temptabam dicere versus erat, così il nostro vate già alla nascita vagisce in rima e, al tempo della istruzione elementare, si cimenta con i metri da Lui stesso definiti “barbari”.
 
Va da sé, sto scherzando. Tuttavia ciò che in Carducci sgomenta è la sua capacità di fare poesia, vera o presunta, con qualsiasi soggetto od oggetto capiti portata di mano: e oggidì sono persuaso che non negherebbe un distico elegiaco neppure a Simona Ventura e all’Isola dei Famosi. Beato Lui! Gli riesce di cantare un geometra, un asino e persino un bove, anzi, il bove, povera bestia innocente che tutti quelli della mia generazione hanno detestato, costretti come erano dalla scuola a mandare a memoria il sonetto più brutto partorito da mente umana (a tacere del silenzio, diventato verde in virtù di ipallage). 
  
E’ possibile che io sia schiavo di un pregiudizio romantico, ma credo che la poesia debba volgersi all’inesprimibile, a un’emozione o a un sentimento misteriosi, arcani, che inopinatamente sgorgano dal chiuso del cuore e quasi stordiscono. Sono concetti a mio avviso irrinunciabili, altrimenti si cade o si scade nella prosa che è tutt’altra questione. La maggior parte della poesia di Carducci suscita l’impressione di essere prosa, spesso roboante, tradotta in versi, in rime, in trombonate (e si apprezzi l’endecasillabo che precede questa parentesi). Dire “Apportami di fresche linfe un orcio” anziché “dammi un bicchiere d’acqua”, rende troppo facile la transizione allo spazio fatato della poesia.
 
E non mi sembra sufficiente ragione di riscatto la vena di giacobinismo che spesso attraversa le sortite del Nostro. Fu un mangiapreti e un fervente patriota, anche se il suo contributo alla causa dell’Unità italiana fu quello di un intellettuale, di un professore, a differenza, che so?, di un Ippolito Nievo che si imbarca con i Mille e, sulla via del ritorno, ci lascia la pelle in un naufragio. Carducci sparò proiettili esclusivamente verbali , proiettili che fecero grande impressione: e, in qualche modo, vi è una sua corresponsabilità morale nella partecipazione italiana ai due conflitti mondiali, anche se i massacri furono celebrati quando l’indomito Giosuè era già volato sull’Elicona.
 
Il punto è che la produzione del nostro ha un vago retrogusto di fascismo. Sotto il fascismo la fortuna di Carducci fu enorme, e proprio allora gli vennero intitolate scuole di ogni ordine e grado. Il personaggio fu inflazionato, a suo danno, perché quasi sempre fu proposto il peggio della sua opera, accantonando o dimenticando le cose belle che pure sono presenti.
Non sono uno studioso di Carducci, sono un lettore mediamente informato: però so che l’Uomo, a dispetto di fotografie che lo mostrano simile a un orco, ebbe vita sentimentale intensa, anche prima dell’arcinota amicizia con Annie Vivanti. Azzarderei che il miglior Carducci è ancora da scoprire, come implicitamente affermano i critici più moderni, che rinviano al copioso epistolario e in particolare al carteggio amoroso. E bellissime sono alcune delle poesie dove fa capolino o si affaccia prepotentemente il turbamento del cuore.
 
Carducci poeta d’amore? Capisco che l’affermazione può mettere sottosopra centocinquant’anni di postille dotte quanto pedanti, postille che spesso hanno considerato il versante sentimentale alla stregua di un microaccessorio. Eppure, se mi venisse richiesto di indicare qual è il più bel componimento di Giosuè, non avrei esitazioni e direi Vendette della luna (da Rime Nuove, 1873), un’ode saffica rimata, per lo più negletta e sempre dalla scuola. La saffica rimata tra i metri barbari è il più musicale, il più riuscito, forse l’unico riuscito. E’ dolcissimo, orecchiabile, quasi cantante, e scivola via senza che chi legge o chi ascolta abbia la percezione del sottostante lavoro di costruzione dei versi (strofe di tre endecasillabi e di un quinario, a rime alternate).
 
In Vendette dalla luna non ci sono sparate auliche, riferimenti eruditi, rataplàn: c’è il racconto di una magarìa d’amore, e tutto trascolora nella bianca luce di Selene, cioè nella dimensione della fantasia del sogno, dove alla fine si vorrebbe solo dileguare. Ripeto: è una splendida poesia, né mi fa velo il desiderio di dileguare comune a me e forse a tanti altri.



Tags: alla musa odiernissima, charles baudelaire, elide gramegna, Giampaolo Rugarli, giosuè carducci, ovidio, poesia, simona ventura, vendetta dalla luna,
01 Maggio 2010

Oggetto recensito:

GIOSUE' CARDUCCI

giudizio:



8.390772
Media: 8.4 (13 voti)

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