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Oggetto recensito:
Viaggio a Tokyo
di: Paola Di Giuseppe




Tokyo monogatari - Giappone, 1953 durata 136’ di Yasujiro Ozu con Chishu Ryu, Chiyeko Higashiyama, Sô Yamamura

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“Labirinto della semplicità”. Questa bellissima definizione che Amir Naderi dà del cinema di Ozu è l’assunto da cui voglio partire per parlare di questo film, raccontandolo così come l’ho visto e me ne sono lasciata avvincere. Di Viaggio a Tokyo è stato detto tutto, la disamina completa di Dario Tomasi nel suo libro dedicato a quest’unico film è esaustiva sotto tutti gli aspetti, dunque non resta che registrare la personale emozione nella scoperta di codici espressivi di così classica compostezza, cercando di capire come e perché questa semplicità crei empatia così profonda con chi assiste e si depositi poi nella sua memoria come il tucidideo “acquisto perenne”.

“…innova costantemente la lingua poetica con procedimenti di consapevole invenzione di cui è possibile cogliere l’intima ragione; in quanto narratore, crea tutta una rete di sofisticate interrelazioni con i suoi personaggi; è in grado di dilatare e di comprimere l’esposizione delle vicende a seconda delle sue esigenze narrative, organizza il racconto sulla linea di un suo disegno strategico, con chiare implicazioni ideologiche”.

Bene, chi conosce Ozu può pensare che si stia parlando di lui, e invece è di Omero che parla il suo più grande studioso vivente, Vincenzo Di Benedetto (Nel laboratorio di Omero, Einaudi, 1994, prefazione). Non sembri inopportuno ed eccessivo il richiamo, nasce spontaneo, leggendo l’analisi che Di Benedetto fa del testo omerico, trovare in Ozu riscontri sul piano linguistico e nell’ordine che dà alla materia narrativa.

Quel suo modo di lavorare su piani paralleli rimanda inoltre a ciò che individua Dario Del Corno (Letteratura greca, 1995, ed. Principato, p.52) come precipua tecnica omerica “ …il mondo si presenta come un sistema di fenomeni naturali e di attività umane a cui è sottesa una norma di ordine e di regolarità; ma all’interno di quest’ordine pulsa la vitalità dell’evento singolo i cui significati risultano tanto più flagranti sia in quanto si integrano in tale ordine, sia in quanto ad esso si oppongono. Ciò conferisce ai poemi il sapore di una scoperta continua dell’universo e dell’uomo; e il senso di questa rivelazione si rispecchia nella tonalità fresca e immediata della parola”

Una storia semplice, questa della famiglia che si disgrega intorno ai due anziani genitori in viaggio per rivedere i figli, dopo tremila anni non si combatte più sotto le mura di Troia né intervengono Dei vestiti da uomini con frecce d’argento intinte nel veleno, ma la peste dilaga ancora fra le schiere, amore e morte, solitudine ed egoismo che si copre di ipocrita ragionevolezza, dolcezza di sentimenti e silenzi sul mare, c’è tutto il repertorio della condizione umana e c’è l’aedo che intona il suo canto. Il ritmo di Ozu è quello dei sentimenti, la musica di Saito Kojun commenta le scene con perfetta sintonia, i volti e i gesti di Chishu Ryu e Setsuko Hara, i suoi interpreti prediletti, sono plasmati da una regia che non lascia nulla al caso :

“Mi ricordo che in Chichi ariki (C’era un padre, 1942) in cui interpretavo il padre, Ozu mi domandò di guardare la cima delle mie bacchette, poi la mia mano, prima di parlare ai miei figli. Fare questo seguendo quest’ordine bastava a suggerire un sentimento o una determinata atmosfera”, racconta Chishu Ryu.

Il sorriso di Setsuko Hara, l’indimenticabile Yukie di Kurosawa in Non rimpiango la mia giovinezza, la bellissima Taeko de L’Idiota, “enigmaticamente nasconde sempre pensieri inattesi e sorprendenti” e illumina di gentilezza la scena mentre si muove tra le faccende di casa, massaggia le spalle della suocera affaticata, si stende vicino a lei sul futon e guarda nel vuoto mentre l’anziana signora la esorta a sposarsi di nuovo, dopo la morte del marito in guerra, sono trascorsi otto anni, è giusto che abbia ancora una vita felice.

E’ Noriko, l’unica che accolga i due vecchi con autentica gioia, che soffra al vederli partire, che accorra a Onomichi prima degli altri alla notizia della malattia della suocera. Un film scandito dal rollìo nella baia di battelli che partono, dal passo simmetrico di bambini ripresi di spalle che vanno, lungo la banchina, verso una scuola, in primo piano tre bottiglie a terra segnano lo stacco luce/ombra (si cita spesso Morandi quando si parla di Ozu).

Una panoramica sui tetti della città e un treno entra da sinistra, seminascosto fra le case, poi la ripresa si avvicina, ora è una macchia d’ombra che fischia entrando da destra, i tetti sono spogli e i panni stesi ad asciugare sventolano più forte.

Non fossimo in Giappone, verrebbero in mente Hopper e la sua solitudine metropolitana.

Scena successiva, in uno spazio cubico, ripreso a fil di pavimento, papà e mamma seduti consultano l’orario ferroviario e preparano la borsa da viaggio. Sta per iniziare la loro piccola Odissea domestica, sentiamo quello che si agita dentro di loro, non c’è bisogno di dirlo, prefigurano scenari di accoglienza, attese alla stazione da parte dei figli, hanno la splendida tranquillità di chi sta per fare qualcosa che lo spinge dal profondo del cuore. La vicina di casa si avvicina alla finestra, il viso e il suono della voce di Chishu Ryu che dice:

“Andiamo a trovare i nostri figli” incarnano l’indescrivibile amore che sopravvive a tutto, ma è giusto anche che dica: “Speriamo” alla vicina che esclama: “Saranno contenti di vedervi!”, è un amore assoluto, sì, ma consapevole.

La stessa vicina appare nell’inquadratura finale sullo sfondo, la moglie è morta, lui è seduto a sinistra con il ventaglio che ritma il tempo, un filo di fumo alza una sottile voluta al centro, oltre la finestra si apre la baia e un battello parte, poche parole:

“Mia moglie era un po’ goffa, ma se avessi saputo che sarebbe finita così avrei cercato di essere più gentile con lei. Ora che sono solo le giornate sembrano più lunghe”.

E poi silenzio. Fra queste due parentesi si gioca l’ultima partita con le illusioni, gli slanci d’amore frenati, l’amara vicenda di uomini che invecchiando capiscono tante cose, o forse le vivono soltanto prendendone atto: "Ma allora, la vita è un cumulo di delusioni?" dice la giovane cognata a Noriko, che risponde sorridendo: "Sì".

Le alte ciminiere di Tokyo che eruttano fumo nero segnano lo stacco fra le sequenze centrali, ancora panni stesi ad asciugare e bambini sullo sfondo.

Un coro infantile farà da sonoro all’ultima scena e ci ricorda le voci che, improvvise, entrano in campo dopo il furioso duello nell’erba in Cane randagio di Kurosawa, ma qui non riusciamo a pensare, con Dostoevskij, che solo“la bellezza, misteriosa e terribile, salva il mondo”, non c’è il respiro epico del mondo di Kurosawa e il ritorno a casa non è quello dell’eroe omerico che vi trova dolci complicità e attese appagate.

Nel corso del film Ozu costruisce la stanchezza dei due genitori, il loro silenzio remissivo, la fine della reciprocità degli affetti.

I figli hanno la loro vita, non c’è tempo per loro, a volte neanche spazio in abitazioni anguste di periferia, dove si svolgono le loro attività che i genitori scoprono inaspettatamente modeste, da lontano avevano sempre pensato a loro come professionisti affermati, e invece…

I due genitori saranno spediti come pacchi ad Atami, una località termale vicino a Tokyo, devono riposare, lì è bello, ma soprattutto si fa fare qualcosa a questi due ospiti che non si sa come gestire, benchè non chiedano assolutamente nulla.

Il soggiorno costa un po’ ai figli, questo accresce il disagio dei due, e poi c’è tanto chiasso, suonano e cantano fino a tardi, e loro, distesi sul futon, tacciono e non dormono.

“Torniamo a casa”, dice lui alla moglie il mattino dopo, seduti sconsolati in buffi kimono da sede termale sul muretto della spiaggia, mentre tutto sembra così insensato!

“Ora sì che siamo senza una casa!”, l’accoglienza al ritorno anticippato è stata gelida, fintamente cortese, si avvertono queste cose e fanno male, riescono ancora a sorridere, ma è un sorriso sempre più stanco.

“Guarda com’è grande Tokyo”. “Si è vero. Se ci perdessimo non ci troveremmo più” Lui annuisce, di profilo, e la guarda.

Sono soli come nessuno nel controluce, di spalle, la mamma cammina e si avverte la fatica nel suo corpo appesantito dagli anni.

La serata del padre prima della partenza al bar, con i due vecchi amici ritrovati, affogherà in un mare di saké e di discorsi sconsolati sui figli, e poi il cerchio si chiuderà e le difficoltà del ritorno, le notizie preoccupanti, il cuore della mamma che cede, questa ulteriore seccatura per i figli, chiuderanno il sipario di questo semplice e crudele racconto di un’epica rovesciata, quella dell’uomo del ventesimo secolo dopo Cristo.





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