
Oggetto recensito:
“La mia vita è la storia di un' autorealizzazione dell'inconscio.” Con questo C.G.Jung ha aperto possibilità interpretative illimitate e illuminanti, che tranquillamente (si fa per dire) possiamo trasferire anche a tutto quello che della vita reale è rispecchiamento, e dunque l’oggetto d’arte in primis. In questo senso la vicenda di Teddy Daniels in Shutter Island è esemplare. Anni ’50 in America, imperversa il maccartismo, alle spalle, da poco, gli orrori visti e filmati nei campi di sterminio (Dachau e Auschwitz vengono abilmente confusi nei ricordi di chi ha bisogno di rimuovere l’indicibile e l’incommensurabile, e la famosa insegna Arbeit macht frei di Auschwitz nel film è attribuita a Dachau, con evidente e voluto falso). Questo è quello che si chiama il contesto storico, dove il plot pesca con frequenti flash back. Lui (un ottimo Di Caprio), ispettore federale inviato con Chuk a Shutter Island, al largo della costa del Massachusetts, in un sinistro carcere per pazzi criminali a indagare sulla sparizione di una detenuta pericolosa, è quel che si dice un “modello comportamentale”, e tutto quel che Scorsese gli costruisce intorno lo rivela ma, attenzione, con abilissima tattica dissuasoria, con distrattori continui che solo la maestria di un grande del cinema riesce a dosare con tanta perizia. Lo spettatore è continuamente spiazzato e poi rimesso in sesto, costretto a richiamare tutte le sue capacità di flessibilità mentale di fronte ad un’azione che sembra procedere sicura, su una via maestra, da inquadrare solo entro il filone appropriato (thriller? giallo? giallo/horror? gothic novel?) e all’improvviso si spezzetta in mille sfaccettature, i conti non tornano più, chi sta facendo cosa? Dov’è il famoso bandolo della matassa? La maestria di cui sopra è tutta nel condurci attraverso dissonanze continue, marcate potentemente da un sonoro perfetto, con martellamenti dosati, non frastornanti, una metrica del testo con arsi e tesi a segnare i passi nel delirio, in un territorio sconfinato, quello della mente, e farcelo frequentare come l’unico luogo possibile, sempre a patto che se ne accettino le regole. Alla fine della visione capiamo di aver percorso un delirio molto reale, e allora possiamo anche cercare le cosiddette oggettività fattuali ( i morti sono morti!) , ricostruirci un plot mentale mettendo insieme i dati, ma l’esercizio è sterile e anche qui ci soccorre Jung “questa intera creazione è essenzialmente soggettiva, e il sogno è il teatro dove il sognatore è allo stesso tempo la scena, l'attore, il suggeritore, il direttore di scena, il manager, l'autore, il pubblico e il critico.” L’acqua è una delle componenti più forti del film, il più presente tra gli altri simboli (l’isola, il faro, il doppio, la scala a chiocciola) fin dalla prima scena, quando il traghettto esce dallo sfondo lattiginoso di nebbia alla Gordon Pym. Teddy ha chiari sintomi di mal di mare, ma il mare è calmo, dunque perché? L’acqua lo bagna costantemente, che sia l’ uragano, o lo sgocciolamento da tubature e fessure di pareti fatiscenti, o il mare mugghiante dove scende, con la facilità che solo nei sogni, lungo una parete di roccia a strapiombo, mentre frotte nere di topi invadono lo schermo uscendo da una fessura (le stesse putride bestie che pullulano nella piazza degli appestati del Nosferatu di Herzog), o che siano, infine, le chiare, fresche e dolci acque del laghetto davanti casa, dove si è consumato l’eccidio della sua vita, e da cui riemerge con i tre cadaverini in braccio per uccidere, poi, la folle, bionda, bellissima e amatissima moglie che gli chiede di liberarla, ma da chi? da cosa? Rimuovere si può, certo, ma non si cancella nulla e la percezione della realtà esterna, verso la quale aderiamo in modo irremovibile, altro non è che il nostro teatro mentale, e coloro che vi si muovono non hanno minor legittimità dei corpi fisici. Medici e secondini, malati e infermieri, tutto sfila nell’ordine che crediamo sia l’ordine, questo ci dice il sé junghiano, ma c’è anche da “individuarsi”, ripescare cioè l’ “io”, quell’isola razionale necessaria a ricomporre l’unità psichica per diventare “sé stessi”. Questo riesce a dirci Scorsese, utilizzando un repertorio di soluzioni registiche mirabolanti, il film è addirittura come “plasmato” dalla sua mano, fatto emergere a prendere forma dalla materia grezza a colpi di scalpello, e le analisi potrebbero durare molto a lungo e forse non basterebbero.L’arte conserva sempre il suo cono di mistero. Come il Prospero di Shakespeare, non resta allora che consegnare “il nostro libro magico all’incoscienza e alle profondità dell’acqua”.
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