
Oggetto recensito:
Mortifera ossessione.
The tree of life (L’albero della vita) di Terrence Malick è un film che impressiona per il brulicare di suggestioni e di rimandi, di immagini belle e almeno all’apparenza eterogenee, di differenti registri di immaginario, di ideologie esibite e di retoriche nascoste. Una miniera, una festa per l’appassionato e per la critica, ma anche il cinema peggiore se adottato nel verso millimetricamente, ossessivamente calcolato dal regista.
Proviamo a riassumere quello che passa sullo schermo. Nel viavai spaziotemporale che ci trascina dal buio a un vago lucore, alla luce più abbacinante, dal cosmo macro al micro eguagliati nella meraviglia dell’indistinto, che ci pone ora (si direbbe) sul telescopio spaziale Hubble, ora nel mondo abitato dai dinosauri, si incastra la storia di una coppia di giovani sposi della middle class americana negli anni '50.
Lui bello come Brad Pitt, certo dell’onnipotenza derivante dalla determinazione, dalla fatica e dal merito individuali, si fa chiamare “signore” dai tre figli maschi, è deciso a insegnar loro come si diventa grandi uomini in America, poi viene sconfitto e ridimensionato dalla vita. Lei bella, dolce, dipendente e silenziosa ma non stupida, persino rossa di capelli, crede nel potere della dolcezza e dell'amore, è la mamma ideale dentro e fuori. I tre bebé sono amorevolmente accuditi uno dopo l’altro, crescendo il maggiore, Jack, si scontra con il padre autoritario finché “sono cattivo come te, somiglio più a te che a lei”, dirà liberando in qualche modo se stesso e il tiranno.
Insomma, siamo nel classico dramma edipico borghese medio. Classico in quanto completo di fantasie omicide e orda fraterna, medio perché alquanto inodore e votato a incruento scioglimento, vi è allusione al sesso ma senza disturbare, la violenza non va oltre il “così fan tutti” e nemmeno ci sono personaggi cattivi, semmai degli esseri resi aggressivi dalla nevrosi (soprattutto il padre) e dai sensi di colpa (soprattutto il figlio ribelle). Uno dei fratelli morirà diciannovenne; caduto in Vietnam, si direbbe. Ma l’evento, con una scelta inversione temporale, è appena accennato all’inizio della vicenda, non avrà alcuna vera conseguenza diegetica. La sua funzione è piuttosto quella di un potente agente semiotico destinato a tallonare lo spettatore durante tutto il film, al servizio del ferreo progetto di Malik.
Perché il tutto è inesorabilmente costretto in una doppia cornice ideologica. La prima, esibita e dominante, è di carattere metafisico, fissata dall’inizio dall’epigrafe tratta dal libro di Giobbe e via via ribadita da mille marcatori: perché dio fa il male, perché non distingue e non risparmia nessuno, perché dice certe cose e ne fa altre (come papà), dov’è la giustizia di dio (e di papà), come salvarsi, come mettersi al riparo? ecc. ecc. La seconda cornice è un discorso socio-antropologico, ovvero politico, che colloca la vicenda terrestre dei personaggi nell’orizzonte claustrofobico, senza scampo, della famiglia mononucleare di tradizione cristiano-borghese. Cornice parentetica o secondaria rispetto all’altra (una volta indicato il trono di dio, ancorché vuoto, e il suo punto di vista, ancorché in forma inversa, tutto il resto alla fin fine non può essere che secondario), ma solo sul piano logico. In un certo senso anche teo-logico, perché in realtà fornisce il fuoco prospettico, meglio ancora, la fonte delle identificazioni che permettono al film di avere un senso, di funzionare come tale. Esemplare dunque l’epilogo che salda le due cornici, concilia l’uno e l’altro orizzonte, il fisico e il metafisico, la natura e la grazia, i vivi e i morti, in un tempo unificato: quello di un aldilà sognato/immaginato da Jack ormai divenuto adulto (Sean Penn), nel quale si riuniscono i corpi gloriosi dei familiari e dell’umanità circostante, compresi nei giovanili (biblici, originari) anni ’50.
Ma, si creda o no in un Edipo di ascendenza freudiana, in un dio biblico e nella invalicabile bontà dell’istituto famigliare, non si può che prendere posizione contro il dispositivo filmico mortifero e fascista costruito dalla regia di Malick.
Perché The tree of life è soprattutto un perfetto dispositivo di sopraffazione e di intimidazione. Tutti i mezzi sono impiegati per paralizzare il soggetto e spingerlo a un’identificazione senza via di scampo, per togliergli la parola dopo averlo sottomesso alla macchina del film come a un padrone assoluto. Identificazione primaria, senza mediazioni, propriamente mistica, con l’occhio della macchina da presa; dunque con il padrone alla regia (dio), l’occhio si tuffa sui piani indecifrabili, sulle visioni astratte e semiastratte del cosmo micro e macro (unità del creato); un occhio che soverchia la spinta all’identificazione secondaria con l’umanità dei personaggi, continuamante sfiorandoli, girando loro intorno, prendendoli volentieri alle spalle, come puri oggetti esposti in permanenza alla minaccia e alla contemplazione sadica. Operazione rinforzata dal sonoro, che non è mai vero commento, mai scarto o apertura dialettica, ma insistenza, ripetizione, enfasi mistica del già visto. Fondamentale e rivelatore l’uso della voce off come agente fusionale, tanto più intrusivo in quanto si riduce a un sussurro disincarnato.
Siamo ben oltre un estetismo esasperato, oggetto costante di lodi o rimproveri critici verso il cineasta texano. Questo film è una macchina di saturazione totalitaria dello spettatore in quanto soggetto. Siamo a un’idea di unio mistica tra forma e contenuto che pretende di proiettarsi oltre la rappresentazione, che quasi aspira a inverarsi senza mediazioni. Un incubo.
Qualche critico a corto di argomenti ha accostato The Tree of Life ad Hereafter di Eastwood quanto a tematiche, a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick per gli aspetti formali. Puerile se parliamo di somiglianze, il confronto diventa utile per evidenziare differenze sostanziali.
In Hereafter lo spazio che mette in contatto vivi e morti non è nell’ordine di una metafisica sovrastante, che azzera tutto mentre promette di inverarsi alla fine dei tempi: è uno spazio tutto umano, discontinuo e singolare, che i personaggi vivono per assumerlo o rigettarlo (stupendo il personaggio del medium che sceglie di fare l’operaio, interpretato da Matt Damon), cui come spettatori siamo liberi di non credere nella realtà senza dover rinunciare alla peculiare sospensione di incredulità che serve per gustare un film o un romanzo.
Ben altra materia ci sarebbe per un confronto dettagliato con 2001: Odissea nello spazio. Ma, anche senza voler considerare l’opposizione filosofica che divide i due film (e tutta la cinematografia dei rispettivi autori), un rapido esame rivela l’immensa distanza nella strutturazione dei significanti, nell’uso della strumentazione tecnica. Al servizio di un cinema totale, mitologico e mitopoietico, dalla parte di Kubrick; veicoli di un’idea perversa di cinema, un cinema totalitario, mistico e sterilizzante, dalla parte di Malick. Qualcosa fatto per uno spettatore simile all’Alex sottoposto a condizionamento in Arancia meccanica, ma che arriva al trattamento con le proprie gambe e ci resta del tutto consenziente. Icona del silenzio compunto di molti all’uscita dal cinema dopo le due ore abbondanti di The tree of life, nonché di tanti commenti imbarazzati – ma soprattutto imbarazzanti – di tanti critici intervenuti a caldo dopo la presentazione del film.
Si potrebbero aprire a questo punto altri discorsi, sulle tendenze attuali nel cinema (decadenza e innovazioni), nello spettacolo e nella società dello spettacolo, negli istituti dell’immaginario. Indiscutibile la ricchezza e l’importanza di film come The tree of life, in grado di sollecitare tante riflessioni. Ciò che conta è non subirli, ciò che conta è impugnarne l’etica e l’estetica per rovesciarle.
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