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Oggetto recensito:
Sonetàula di Salvatore Mereu
di: Carla Casu




Sonetàula, vita di un pastore-bandito nella cornice poetica di una terra selvaggia

Presentato al Festival di Berlino nel 2008 (nella sezione Panorama), Sonetàula, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Fiori, narra i tredici anni della vita di un giovane pastore sardo (dal 1937 al 1950), dall'adolescenza all'età adulta: tra pecore, povertà, insegnamenti del nonno, amore non corrisposto, solitudine, latitanza, voglia di riscatto in un mondo che si affaccia al progresso e incapacità di sfuggire alla realtà che sfocia nel tragico epilogo. A tre anni di distanza dall’opera prima Ballo a tre passi (vincitore della “Settimana della Critica” al Festival di Venezia e di un David di Donatello come miglior regista esordiente), il dorgalese Salvatore Mereu sceglie nuovamente di narrare la sua Sardegna, senza alcuna «ambizione didascalica o pedagogica» - come scrive Goffredo Fofi (La Nuova Sardegna, 8 marzo 2008) infatti - «non vuole convincere né illustrare, non vuole dare il suo contributo alla lunga bibliografia (e alla breve ma consistente filmografia) sulla Barbagia delle vendette e dei codici, degli usi e costumi già studiati e raccontati da tanti». E forse per questo preferisce sacrificare momenti cruciali, come quello dell’omicidio compiuto per vendetta (principio cardine del codice barbaricino), a favore di una rappresentazione della repressione sessuale del protagonista (interpretato dal bravo Francesco Falchetto), attraverso alcune scene di autoerotismo, non presenti nel romanzo, ma significative per comprendere il delicato passaggio dalla fase infantile e ingenua dell’esistenza alle esigenze di una maturità fisica che chiedono di essere sfogate. Mereu sceglie quindi di porre prevalentemente l’accento sul ragazzo e non sul bandito che, come lui stesso afferma, non riesce a rendere efferato e “cattivo” come appare nel libro in seguito alla morte del padre (prima costretto al confino per un omicidio non commesso e deceduto successivamente in Libia, durante la seconda guerra mondiale), aspetto che viene mostrato nella pellicola solo attraverso la crudezza della scena dello sgarrettamento, in risposta ad un furto subito. Girato sulle suggestive cime del Monte Corrasi (Oliena) e costato circa quattro milioni di euro, il film è interpretato da attori non professionisti (ad eccezione di Lazar Ristovski, Giselda Volodi e Manuela Martelli) e recitato in sardo nelle sue varianti logudorese, barbaricina e campidanese, fatto apparentemente insolito per personaggi provenienti dallo stesso luogo (il fittizio paese di Orgiadas), ma scelta obbligata che ha portato il regista a privilegiare le buone interpretazioni piuttosto che la variante linguistica; decisione che lo stesso considera plausibile e giustificata dal fenomeno della transumanza. Oltre all’ostacolo linguistico, il regista ha dovuto affrontare la difficoltà rappresentata dalla scelta dei personaggi che abbracciano una temporalità così ampia (più di vent’anni). Dopo tre mesi di provini, Mereu abbandona infatti l’idea della staffetta (che dovrebbe toccare quattro o cinque personaggi) e decide di servirsi degli stessi attori per tutto l’arco di tempo, girando in ordine cronologico, attraverso un piano di lavorazione ad hoc che permetta agli interpreti di crescere progressivamente con i personaggi, evitando problemi di montaggio. Un film caratterizzato da colori a tinte forti, che si avvale di ben quattro direttori della fotografia e che esprime, attraverso l’oscurità data anche dalle numerose scene notturne, la ruvidità scolpita nei volti dei suoi interpreti e l’asprezza del suo paesaggio; la realtà di un mondo arcaico e del suo divenire scandito non da una colonna sonora (quasi completamente assente), ma da una suddivisione in capitoli intitolati con i nomi dei vari personaggi, posti alla fine di ogni sequenza, quasi ad indicare un pezzo di storia (e di vita) che scorre via e si conclude, senza possibilità di ritorno. È una pellicola poetica, quella di Mereu, con diversi riferimenti cinematografici (uno tra tutti quello a Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta), che porta sullo schermo quattro generazioni e raggiunge l’apice della narrazione nelle scene che precedono il finale e nell’ideale passaggio di testimone tra Zuanne Malune (Sonetàula) e il piccolo Angelino, simbolo di una Sardegna che desidera una vita diversa, fatta di studio e lavori redditizi, lontano da campi e bestiame. Un’opera curata nei minimi dettagli, che ha come unico difetto quello di perdersi in alcuni passaggi narrativi eccessivamente prolissi, chiedendo allo spettatore di compiere uno sforzo non indifferente nel riuscire a tenere desta l’attenzione per tutti i centocinquantasette minuti in cui la storia viene sviscerata, ma che vanta allo stesso tempo ciò che i “puristi” considerano probabilmente una grande virtù: quella di aver mantenuto una straordinaria fedeltà al testo, sebbene esprima minore fiducia nel futuro rispetto ad esso. Aspetto, questo, che forse lo stesso Fiori avrebbe apprezzato, se avesse avuto la possibilità di visionare la pellicola.





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