
Oggetto recensito:
Una lodevole iniziativa di Mymovies per un gruppo di invitati ha fatto conoscere in anteprima in streaming on line questo bel film di Gotz Spielmann, regista austriaco più volte premiato ma poco noto da noi (di lui ricordiamo, fra l’altro, Antares, selezionato per l'Oscar al miglior film straniero nel 2004). Spielmann costruisce questo noir nel solco di quella tradizione, in prevalenza francese, che da Duvivier a Rénoir, da Carnè a Chenal, ha dato al genere un carattere europeo inconfondibile e diverso dal filone americano. Gli ingredienti sono i classici: una coppia di amanti dannati in fuga (lui ex galeotto, lei prostituta dell’Est, una rapina in banca per finanziare la nuova vita), l’amore, nonostante tutto, l’inguaribile e insostenibile ricerca di un mondo altrove, la caduta e la sconfitta annunciata, quasi fisicamente incombente su destini che ben poco hanno di imprevedibile. C’è tanto cinema europeo d’autore in quel passare da scenari metropolitani di malaffare, interni maleodoranti e strade di una banlieu disperata, in cui la violenza è l’unica legge, ad improvvise dilatazioni grandangolari su campagna, fiumi e boschi, paesi immersi in silenzi perduti, cascinali in cui il tempo è fermo, immemore, mondi che chiameremmo idilliaci se non avvertissimo forte, minacciosa, un’inquietudine nascosta, che balena a tratti, non esplode ma produce impercettibile disagio, attesa, mancanza di “finale”. I titoli di coda colgono di sorpresa, il plot segue le sue tappe, allinea i numerosi colpi di scena, eppure l’opera resta aperta e irrisolta, come la vita. Per Alex e la sua donna la fine c’è stata, voluta dal caso e dalle sue beffe (un poliziotto di paese, che non sa usare la pistola con la freddezza necessaria, mirando alle gomme ha invece colpito la donna) e ora Alex potrebbe trasformarsi in uno spietato vendicatore, la furia che mette nel tagliare la legna con motosega o accetta nel retro del cascinale del vecchio zio è lo scatenamento di una rabbia che non ha parole. La macchina lo segue, ne registra gli sguardi rapidi, lo inquadra in semiconi di luce, sottolinea le brevissime battute. Intorno a lui ruotano gli altri personaggi, incontri brevi, densi, pieni di non detto, pezzi di umanità con storie qualsiasi che possono d’improvviso virare al nero. “Resterò finchè lui sarà in vita” sono le parole di Alex, in chiusura, alla moglie del poliziotto che ha ucciso la sua donna. Non sappiamo se sia una minaccia o ancora un rimandare una vendetta che avrebbe avuto più occasioni per compiere. Un probabile perdono? Non sembra la chiave di lettura più convincente. Revanche è un film implacabile per l’assenza di una catarsi qualsiasi, l’impotenza sembra essere la sua cifra costante, paralisi della volontà nell’impossibilità di amare o di odiare fino ad uccidere a sangue freddo, in un gesto che sia vendetta e successiva espiazione. Una rete fitta di segreti avvolge vite che entrano in rotta di collisione, generando una violenza amara e connivenze necessarie per mantenere in piedi maschere vuote, non ci sono svolte che non siano generate dal caso, si fluttua fra poli opposti a scoprire quanto inconsistenti e deboli siano le filosofie. Spielmann annulla ogni commento sonoro che non sia presa diretta dalla realtà ma non rinuncia al cromatismo intenso dei luoghi, quello che Haneke, al contrario, dissangua in un bianco e nero asettico e carico di apocalittico presagio. Quei colori, però, non trasmettono vita a uomini raggomitolati su sé stessi in una costante assenza che è male di vivere. Alex resterà a guardia della sua vittima potenziale, forse crescerà ancora la catasta di legna tagliata, forse la moglie del poliziotto sentirà ancora, a volte, il bisogno del suo corpo. Forse il poliziotto uscirà dal suo stato di depressione e si farà una ragione dell’aver ucciso per sbaglio una donna, certo la vita andrà avanti, altri entreranno nel suo gioco assurdo.
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