
Oggetto recensito:
QUANDO IL CANNIBALE DIVENTA PORNOGRAFO Acclamato troppo precipitosamente tra i migliori dieci libri del 2010 dalla giuria di qualità del quotidiano “La Repubblica”, “La vita oscena” (Einaudi, 2010), ultima fatica editoriale di Aldo Nove, si rivela alla lettura un testo alquanto deludente. Tradendo le aspettative, più medianiche ed annunciate che reali ed effettive, che l’accompagnavano, questo romanzo di poco più di cento pagine lascia infatti con l’amaro in bocca chi cercava un po’ di profondità nell’ennesima prova di un autore, non ancora padrone di un’identità letteraria ben definita. E rappresenta un inequivocabile passo indietro rispetto alla positività letteraria dell’operazione del 2006, quando aveva dato alle stampe “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”. Ultimo epigono di una generazione di scrittori classificati a suo tempo come “cannibali”, Aldo Nove, dopo gli esordi scoppiettanti di “Superwoobinda” e la successiva svolta intimista ed esistenzialistica di “Amore mio infinito” che l’aveva allontanato dalla letteratura “cannibale”, vi ricade in “La vita oscena”, mostrando i suoi stilemi triti e ritriti, all’insegna di sesso, droga e altre nefandezze, ed una scrittura irregolare, malgrado l’incipit assai promettente del romanzo, scaturito lungo la linea di un autobiografismo potenzialmente ricco di spunti di rilievo, presto accantonati. Invece, per descrivere l’oscenità della vita, il suo essere crudelmente fuori dalla scena principale, l’autore ricorre a tutto il repertorio della già stanca tradizione splatter italiana. E le memorie tragiche del suo protagonista, che prendono il via dalla triste perdita di entrambi i genitori, con il racconto della sua assoluta, solitaria disperazione, ben presto lasciano il campo al “cannibalismo di ritorno” di incontri pornografici in serie, solo in apparenza assimilabili ad una discesa all’inferno tra le strade di un’orrida Milano: strumento letterario di voyeurismo hard core, traslitterazione di film e giornaletti a luci rosse. In un evidente sbilanciamento tra le pagine di riflessione amara e pure mal scritte del personaggio principale e quelle di pruriginosa narrazione di amplessi a pagamento, trovate spiazzanti, promiscui atti sessuali, che sono molto più numerose. Sicché, a parte qualche raro sprazzo di lirismo, che l’autore ci restituisce appena ricorda di essere essenzialmente un poeta, a prevalere è lo “splatter” che diventa pornografia. Oscenità gratuita e priva di significato, che finisce per coprire con il suo manto sporco l’universo di disperazione che lo scrittore avrebbe forse voluto rappresentare meglio, senza riuscirci, lasciandoci un testo da Bukowski triste di provincia, in cui restano in sospeso le atmosfere nebbiose e trucide appena accennate di tanto in tanto. E lo stesso tentativo, che si legge tra le righe, di evocare una scrittura filosofica alla David Foster Fallace, quando Nove prova ad autoanalizzarsi, alla fine deflagra.
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