
Oggetto recensito:
Con Kagemusha Kurosawa torna al suo secolo di elezione, il ‘500 (“il XVI secolo è la mia epoca preferita, tra grandi ambizioni e grandi eroi, ma anche grandi malvagi e grandiose sconfitte»). 1573, il clan dei Takeda assedia il castello di Noda. Nel Giappone feudale Shingen, il capo, lotta per l’unificazione del paese . Colpito da un archibugiere-cecchino, appostato nella feritoia giusta, mentre ascolta il lamento di quel flauto che, gli hanno riferito, ogni sera arriva dal castello a ipnotizzare tutti gli uomini (cinque anni dopo, in Ran, il flauto dell’indovino cieco modulerà ancora note dagli spalti del castello), Shingen dovrà essere sostituito per tre anni da un sosia (un Kagemusha) che inganni tutti, un impero senza capo è destinato a rapida sconfitta e la successione è problema che affligge ogni guida particolarmente carismatica di un popolo. Dunque questa è la volontà di Shingen, e il suo cadavere sparisce con abile manovra sotto il naso delle spie nemiche (nel campo avverso circoleranno sempre sospetti su questa morte, ma ci vogliono prove, e il sosia è troppo bravo) Un calco quasi perfetto è infatti già pronto al castello, un ladruncolo condannato alla crocifissione a testa in giù, trovato per caso al fiume dove avvengono le esecuzioni. Il film si apre con inquadratura fissa su Shengen, al centro fra il fratello e il Kagemusha, e il tema del doppio si pone fin da questo momento. Al ladro (già copia perfetta dentro la maschera dello sfarzoso kimono) che, con popolana spontaneità, grida il suo ultimo tentativo di autoaffermazione :“Io non ho rubato che un po' di soldi, qualche manciata di roba e nient'altro. E mi chiamate criminale? Un delinquente della vostra forza! Ma se voi ne avete uccisi a migliaia, e saccheggiato intere regioni! Chi è più colpevole? Voi o io?”, l’imperturbabile “signore della guerra” risponde “Il mio dominio è costruito sui cadaveri, ma se io non ci fossi la strage sarebbe collettiva, senza regola». Ma, uscendo, dirà al fratello “Preparalo, parla bene, può esserci utile”. Ponendo all’inizio la scena chiave per la lettura del film, Kurosawa riesce, come sempre, a dosare in perfetto bilanciamento la magnificamente complessa varietà di temi che muove intorno a quello centrale. L’architettura dell’opera è il prodotto del felice equilibrio fra le ragioni ideali e intellettuali alla base del plot (per cui i richiami alla cultura occidentale, da Shakespeare a Pirandello, sembrano d’obbligo anche se non sempre necessari, come fece capire lo stesso regista) e le scelte stilistiche, che curano fino al dettaglio l’apparato visivo, soprattutto nella spettacolarità epica delle masse in movimento (grande lezione fordiana), con una sensibilità pittorica che carica di valore aggiunto la costruzione delle scene. L’uso del colore dà volume al linguaggio di Kurosawa, arricchendo la sua tavolozza con una fantasia e un equilibrio cromatico degni della classica e vibrante compostezza dei nostri grandi del Rinascimento. Ben indottrinato da Nobukado, attorniato da un consiglio di guerra preposto a supportare il suo ruolo non facile con grande pazienza e notevoli risate “omeriche”, inevitabili di fronte alle sue ingenuità, Kagemusha avrà sempre lo sguardo innocente sulle cose, pur calandosi nella sua parte al punto da convincere perfino sé stesso di essere l’altro. Ma “un’ombra ha valore quando c’è il suo originale” dirà il gran dignitario di corte “quando l’originale è sparito la sua ombra dove va a finire?” L’uomo può convivere con la sua maschera solo se tutte le regole del gioco vengono rispettate e la sovrapposizione è perfetta. E’ ancora possibile ingannare il bambino (dopotutto è destinato a diventare uomo), ma non il cavallo, che riconosce solo Shengen e disarciona, sprezzante, Kagemusha (il vecchio cane Argo ha atteso vent’anni Odisseo per morire!). Dunque la maschera ora è un guscio vuoto, inservibile, da scacciare a sassate con un obolo per il servizio prestato. Ma Kurosawa non è Pirandello, e a Nobukado fa dire, parlando di Kagemusha“è un gioco che costa dolore, credo che a volte debba sentirsi come rimesso in croce”. (anche se, a pensarci bene, siamo sicuri che per Pirandello Enrico IV non soffrisse?) Il vuoto involucro del miserabile continuerà per pochi istanti a vivere di vita propria, e sullo spettrale campo dopo la battaglia si scaglierà, patetica marionetta, fino ad essere colpito e cadere nell’ acqua del lago Suwa. Dall’alto, la macchina lo filma mentre galleggia in rotta di collisione con lo stendardo dei Takeda sconfitti. Lui, il Kagemusha, ne aveva perfino imparato a memoria il motto stampigliato sopra “rapidi come il vento, silenziosi come la foresta, fermi come la montagna”.
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