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Oggetto recensito:
L’INFELICE AMORE DI SILVIUZZO E FINARELLO
di: Sara Di Giuseppe




L’INFELICE AMORE DI SILVIUZZO E FINARELLO*

Erano adunque in Roma due astuti governanti ed assai ricchi uomini: messer Silviuzzo e messer Finarello. Essendo messer Finarello assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte messer Silviuzzo guatato, avvenne che egli gli incominciò straordinariamente a piacere. Di che messer Finarello accortosi, lasciati gli altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l’animo a lui. E sì andò la cosa, che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, dichiaratisi, fecero quello che più ambedue desideravano, vivendo insieme assai di buon tempo e di piacere. Ed in questo continuando, avvenne che i compagni di Silviuzzo, meditando intorno a questo fatto, deliberarono che questa vergogna non andasse più innanzi. E, cianciando e ridendo con lui come usati erano, mostrando d’andar fuori città per diletto, seco menaron Finarello e, pervenuti in luogo molto solitario e remoto, Finarello uccisero e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse. E tornatisi nell’Urbe, dieder voce d’averlo per lor bisogni mandato in quel di Montecarlo, il che facilmente creduto fu per ciò che spesso soleva egli soggiornare presso l’amatissimo cognato suo.

Non tornando Finarello, molto spesso e sollecitamente Silviuzzo ai suoi domandavane, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che venisse e con molte lagrime della sua lunga assenza si doleva. Avvenne una notte che, avendo Silviuzzo molto pianto Finarello che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentato, Finarello gli apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato, coi panni tutti stracciati e fradici, e parsegli che egli dicesse: “O Silviuzzo, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga assenza t’attristi e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornare per ciò che i tuoi compagni m’uccisero”. E indicatogli il luogo dove sotterrato l’aveano, gli disse che più nol chiamasse e non l’aspettasse, e disparve.

Silviuzzo, destatosi, amaramente pianse e propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se fosse vero ciò che nel sogno gli era paruto. E dopo che fu andato colà ed ebbe abbastanza scavato, egli trovò il corpo del suo misero amante, e manifestamente conobbe esser vera la sua visione. E veggendo che da solo tutto il corpo non avrebbe potuto portare per dargli più conveniente sepoltura, deliberò di portar seco la testa solamente: e, avviluppata quella in un panno, senza essere da alcun veduto, si partì e tornossene a casa sua.

Qui con questa testa nella sua camera rinchiusosi, sopra essa amaramente e lungamente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole da ogni parte. Poi prese un grande e bel vaso, di quelli ne’quali si pianta la maggiorana o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo e poi, messavi su la terra, vi piantò parecchi piedi di bellissimo basilico salernitano. E ogni giorno sopra esso cominciava a piangere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. Il basilico, sia per la cura amorosa che per la grassezza della terra procedente dalla testa che v’era dentro, divenne bellissimo e odorifero molto. I compagni di Silviuzzo, accortisi di questo e dello smagrimento e della disperazione di lui, nascostamente fecero portar via questo vaso. Il quale non trovandolo egli, con grande insistenza più volte richiese, e non essendogli restituito, si ammalò, né altro che il vaso suo nella infermità domandava. I compagni si meravigliavano forte di questo addomandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora così consumata che essi alla capigliatura non conoscessero esser quella di Finarello. Di che essi si meravigliarono forte e temettero questa cosa si risapesse. E sotterrata quella, senza altro dire, cautamente da Roma se ne fuggirono. Silviuzzo, non smettendo di piangere e continuamente il suo vaso addomandando, piangendo si morì, e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma dopo alcun tempo, divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compose quella canzone che ancor oggi si canta:

Qual esso fu lo malo cristiano Che mi rubò il vaso, etc.

12. 8. ’10 Sara Di Giuseppe

*Libero saccheggio da: Boccaccio, Decameron (IV, 5)





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