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Oggetto recensito:
INVICTUS DI CLINT EASTWOOD
di: lorenzo velle




Eastwood approda in Sud Africa per ritrovare l'innocenza perduta in America. Il cantore epico-tragico delle macerie del Nuovo Mondo inanella un altro grande film nella sua già impareggiabile filmografia. Mi aspetto molte opinioni che centellineranno se questo 'canto libero' sulla compassione e sulla pazienza rivoluzionaria sia da ascrivere tra i migliori film di Eastwood. A mio parere, abbandonato il terreno della violenza e della crudeltà, il regista si concede una pausa di serenità inedita (come era stato con I ponti di Madison County), complice il magistero di vita di Nelson Mandela e quello attoriale di Morgan Freeman che dà vita reale al combattente mansueto che ripudia la vendetta, con un'adesione che avvicina allo spettatore la vita intima e pubblica di Madiba. Eastwood canta (letteralmente: il film è uno dei pochi del regista che connota di cori, musiche indigene, marcette trionfali, inclusi gli interventi delle solite brevi note di piano) le molte virtù dell’uomo che sconfisse l’apartheid dopo essere stato in prigione dal 1963 al 1990. Chi si aspettava un biopic sul rivoluzionario rimarrà deluso, a Eastwood interessa sovrapporre la sua visione del mondo - l’assunzione di responsabilità, il coraggio di osare – al punto che l’avere scelto Mandela possa apparire come un pretesto, dal momento che poco ci viene raccontato dell’uomo. Quel poco lo troviamo seminato in brevi ma intensi cenni allusivi al passato trascorso in cella (Matt Damon che misura le dimensioni della cella-museo in cui è stato racchiuso Mandela per ventisette anni con una semplice estensione delle braccia; l’immagine che si presenta allo stesso del prigioniero che declama curvo in preghiera non importa quanto sia stretta la porta... quanto piena di castighi la vita/ Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima) e alle vicende famigliari, il rapporto con la figlia. Soprattutto interessa a Eastwood raccontare come una partita di rugby può essere vinta con le medesime armi con cui si vincono le battaglie politiche e quelle per la vita. Si può dire che Invictus non è un film su Nelson Mandela (del quale conosciamo vita e peripezie) ma sullo sport che accomuna gli uomini e li rende migliori. Certo, in tempi in cui lo sport dà prova di virtù opposte, vizi dunque e disvalori, averlo preso a pretesa metaforica è per Eastwood un rischio che lui schiva magistralmente con un espediente retorico che a molti parrà un difetto: una volta tanto il regista ricorre all’iperbole, connotata dall’uso assiduo dei campi lunghissimi e dalla visione dall’alto che, mentre sembrano esaltare gli uomini in gara ne riducono la dimensione, tranne poi fare scivolare lo sguardo sotto i corpi degli atleti, incrociati in un groviglio di braccia, gambe, muscoli in movimento, fiati rivelatori dello sforzo umano che nel finale di partita diventano ruggiti, mugolii, rantoli, spifferi d’aria dalle bocche e dalle nari. In questa ‘descrizione di una battaglia’ Eastwood gareggia in bravura e in iperrealismo con Toro scatenato e si lascia dietro tutti i film sullo sport, segnatamente il cinema-prigione muscolare alla Aldrich o quello avventuristico alla Huston e tutti i film sul rugby con un’intonazione degna delle prime trenta pagine di Underworld di Don De Lillo. La torsione agonistica aggiorna lo sforzo dei Laocoonti a inarrivabili esiti, l’evento sportivo si appropria dell’epos omerico, anche Mandela passa in secondo piano e la macchina magica di uno dei più grandi registi dei nostri tempi indugia sulla resistenza della guardia del corpo ad abbracciare l’afrikaner: poi quel residuo di ostilità cede al tripudio della folla e gli uomini del vecchio apartheid intonano il canto che era loro inviso.





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