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Oggetto recensito:
Il nastro bianco di Haneke
di: Paola Di Giuseppe




L’apocalisse dietro l’angolo, l’incubazione del male, la genesi di mostri studiati "in vitro" nel loro farsi, crescere e moltiplicarsi, questo è il film vincitore della 62° edizione di Cannes, Il nastro bianco, già nel titolo così asettico, così totalmente dissanguato nella negazione che il bianco impone ad ogni sospetto di colore e dunque di libero fluire di sangue nella vita. Tagliente e gelido come la coltre di neve che copre il villaggio, abbacinante come i campi che sembrano di ghiaccio anche quando sono ricolmi di spighe, il film è girato in un bianco e nero senza ombre nè calore, il silenzio è la cifra costante, qualche tocco di Schubert e pochi brani da corali a cappella di Lutero non bastano a rompere l’aria rarefatta che si respira per tutta la durata, all’aprirsi di una visione ai confini della realtà, ma che della realtà ci dice molto, dove oggetti, luoghi e persone di comunissima apparenza diventano terrificanti epifanie della totale negazione di umanità. Ogni parvenza di realismo narrativo della trama si dissolve di fronte al senso di mistero che aleggia fino alla fine e non trova soluzioni, le tracce si disperdono già al loro primo apparire, il film non racconta una storia o delle storie, vuol darne l’impressione, ma nell’attimo stesso del verificarsi l’evento sfuma. Tagli improvvisi di sequenze, cambi repentini di scena, il filo continuamente spezzato si riannoda ogni volta nel martellante senso di minaccia incombente, sia questa dettata dai sinistri che si susseguono senza che qualcuno ne cerchi il colpevole, o siano piuttosto i comportamenti sociali e famigliari, segnati da tare ataviche, modellati su assurdi paradigmi di repressione e violenza. Haneke guarda nell’incubatrice della generazione che, vent’anni dopo, avrebbe marciato al passo dell’oca sotto la Porta di Brandeburgo per la gloria del Terzo Reich, ma aggiunge: «Sono dieci anni che lavoro attorno a questo soggetto,e non era certo mia intenzione parlare solo di Germania. In realtà in qualsiasi società se un principio diventa assoluto si disumanizza. Se l'obiettivo da raggiungere, mettiamo da un educatore verso i propri figli, è talmente alto da diventare un ideale, allora non è più raggiungibile e rischia di creare mostri. Un meccanismo che abbiamo conosciuto nelle religioni, nelle ideologie, nei terrorismi di ogni segno». I ragazzi di questo villaggio a nord della Germania si muovono come automi, ubbidiscono come piccoli soldati a chi esercita sulla loro innocenza originaria il diritto di calpestarla, che sia il pastore, fanatico moralista che affida ai nastri bianchi il segno della purezza o il medico, pervertito misogino, o la comunità tutta di volti impassibili, ottusi, facce uscite da una tela di Munch, schierate in chiesa a pregare chissà quale loro strano dio. Un mondo senza speranza, in cui il male è l’innocenza negata che diventa violenza, furia distruttrice, Erinni che sale dal sangue delle vittime e si abbatte sull’uomo. La notizia dell’attentato di Sarajevo e della morte dell’arciduca Francesco Ferdinando chiude il film. E’ il 28 giugno 1914. La voce fuori campo che ha raccontato la “storia” ci aveva avvertito che quello sarebbe stato l’ultimo capodanno di relativa tranquillità_____________ Titolo originale: Das weiße Band - Austria, 2009;di Michael Haneke con Susanne Lothar, Ulrich Tukur, Burghart Klaußner, Josef Bierbichler, Marisa Growaldt, Janina Fautz, Michael Kranz, Jadea Mercedes Diaz, Steffi Kühnert, Sebastian Hülk





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