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Oggetto recensito:
IL CINEMA 'CIVILE' DI ARTHUR PENN
di: lorenzo velle




Arthur Penn (nato a Filadelfia nel 1922) è un regista che nelle sue opere ha analizzato con strumenti moderni (sociologia, psicanalisi) il modo in cui si sviluppa la violenza nel singolo e nei gruppi. La sua indagine, se così possiamo dire, riguarda la natura interna della violenza (della personalità individuale) e quella esterna (della società o di gruppi repressivi). È una chiave di lettura, questa, un po’ riduttiva che serve a schematizzare in un percorso lineare l’opera di Penn. Furia selvaggia (The Left-Handed Gun, 1958) è, infatti, un’analisi in termini quasi psicoanalitici di Billy The Kid. Contrariamente a Borges che afferma (in Storia Universale dell’infamia: “Billy The Kid fu un ragazzo che morendo a ventuno anni lasciava alla giustizia degli uomini un conto di ventuno morti, senza contare i messicani”, Penn esibisce una lettura diversa, neppure tanto ovvia rispetto a uno strumento d’indagine così frequentemente manomesso come la psicoanalisi. Billy è un ragazzo alla ricerca del padre, bloccato, per assenza del ruolo, in una persistente e caparbia volontà di restare nel guscio; infantile e scisso, cerca il padre nel vecchio Tunstall, poi nello sceriffo Pat Garrett (si confronti con la lezione ‘mitologica’ dl Peckinpah), nel fabbro Saval del quale, per spinta edipica, seduce la moglie Celsa. Una rappresentazione così poco naturalistica era una novità a quei tempi: Penn andava alle radici della violenza. Questo piglio indagatorio dei moventi oscuri che animano l’uomo lo portò in direzione di figure emarginate: Anna dei miracoli (The Miracle Worker, 1962) è una creatura cieca e sordomuta che deve fare i conti con una realtà sopraffattrice a costo di impegnare il suo corpo disarmato; il fuggitivo Robert Redford nella Caccia (The Chase, 1966) è il capro espiatorio di un gruppo malato e marcio che vuole redimersi con un bagno di sangue liberatorio. Alla violenza individuale si oppone (anzi la provoca) la violenza di una città, di una comunità, di una nazione. Gli eroi di Penn sono sradicati, perdenti nati: i gangster (Bonnie and Clyde - Gangster’s story, 1967), gli indiani (Piccolo Grande Uomo - Little Big Man, 1970), gli hippies (Alice’s Restaurant - 1969), il detective Harry Moseby (Bersaglio di notte - Night moves, 1975 con un indimenticabile Gene Hackman in uno dei film più belli di Penn e di tutto il genere “private eye”), infine The Missouri Breaks (1976), un film ingiustamente sottovalutato nel quale Tom Logan (Jack Nicholson), picaresco, scalcinato e dolente vaquero ingaggia una lotta con lo spietato bounty-killer Robert Lee Clayton (Marlon Brando), sono personaggi lontani dagli stereotipi e affatto moderni, quanto a complessità caratteriale, dagli eroi cui il cinema hollywoodiano ci aveva abituato fino all’avvento del “New American Cinema”. Resta da comprendere come molta critica abbia apprezzato poco Missouri Breaks, il western più anti-western, astratto, complicato e sregolato che sia mai stato girato. Dopo cinque anni di assenza dal cinema, Penn torna nel 1981 con il film Gli amici di Georgia (Four Friends, 1981), sicuramente uno tra le più elegiache e disincantate opere sul rapporto tra i crucci di una generazione di giovani degli anni tra i Cinquanta e i Sessanta in bilico tra rifiuto e adesione al Sogno Americano. Gli “ultimi fuochi” di questo grande regista intellettuale non raggiungono né l’intensità né la profondità delle opere tra il 1965 e il 1981: strano inaridimento per un regista negli anni della piena maturità artistica, tutto il contrario di quel che ci si sarebbe aspettato. L’indagine sofisticata delle opere giovanili lascia spazio a film ‘alimentari’, di routine di classe, dimenticabili: Ritratti (The Portrait, 1993), Con la morte non si scherza (Penn & Teller Get Killed, 1989), Omicidio allo specchio (Dead of Winter, 1987), per finire con un pessimo spy-thriller, Target - Scuola omicidi (Target, 1985), nonostante la presenza di Gene Hackman.





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