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Oggetto recensito:
Il capitalismo secondo Michael Moore
di: Paola Di Giuseppe




«Sono un essere umano e sono stanco - ha detto il regista - non può ricadere tutto sulle mie spalle o su quelle di Barack Obama. La gente deve svegliarsi e partecipare in massa». Queste parole dicono tanto di quest’uomo che da alcuni anni ha scelto di raccontarci un’America diversa da tutte le fandonie che per generazioni ci hanno detto sulla democrazia, la libertà, l’american way of life. Certo, da un po’ di tempo i conti non tornavano, chiunque fosse minimamente interessato a sapere come vanno le cose nel mondo un’idea della vera America se la poteva fare, réportage, saggi, documentari e film non mancavano. Ma l’impatto che Moore riesce ad ottenere quando ci parla di stragi nelle scuole connesse alla proliferazione delle armi, o delle assurde condizioni del sistema sanitario, o quando lancia il suo personalissimo “prendiamo Bush a scarpate”, oppure, oggi, guarda indignato i mali del capitalismo, subprime e confische di case che stanno facendo degli americani un popolo di homeless, è unico, ci parla da vicino, ce le racconta nel modo più persuasivo perché carico di autentica passione civile, senza cadute nella retorica o nella propaganda di parte. Parole come democrazia, libertà e uguaglianza nei suoi film riprendono il senso dei diritti basilari della gente e finiscono di essere involucri obsoleti, agitati da parti opposte a copertura di ben altre intenzioni. E come ogni sognatore che si rispetti (e ci vuole coraggio a mantenere in vita dei sogni) Moore continua a crederci e addita, senza bisogno di proclami e dotte esegesi, il vero male di quella società, il deficit culturale, cioè, un retroterra mancante che ha allontanato le masse da consapevolezze anche elementari e le ha portate all’accettazione di soprusi e ingiustizie come se fosse la legge del Signore. Operai che “scoprono” che una fabbrica si può occupare per impedire licenziamenti, uomini che “scoprono” che le case abitate da vent’anni si possono non cedere alla confisca di un sistema bancario feroce, tutto questo ci mette di fronte alla domanda: ma cosa sanno gli americani della storia del mondo? La risposta è nel loro sistema educativo e formativo, nell’incultura sempre più dilagante. Un giorno Dario Fo recitava “Il padrone conosce 100 parole, l’operaio 10, il padrone comanda”. In America si può nascere e morire senza aver mai saputo di quali diritti si viene privati, e notizie certe ci dicono che entro fine anno un altro milione di bambini passerà alla condizione di homeless seguendo le sorti dei loro padri. Nei film di Moore non c’è la denuncia arcigna, petulante. Una sana vena satirica percorre sempre le sue scene, le interviste sono capolavori di arguzia e la voce fuori campo ci accompagna scanzonata qua e là, a volte in modo un po’ sconclusionato, ma alla fine troviamo tutto molto convincente. Quello che, va detto, più cattura è la fiducia di quest’uomo, la sua capacità di non arrendersi: “Ma rimango continuamente sorpreso dell'abilità non solo del popolo americano ma anche di quello di tutto il mondo per far accadere l'impossibile. Quanti di voi avrebbero pensato che il muro di Berlino sarebbe mai caduto, io no, e quanti hanno creduto che Mandela sarebbe uscito di prigione e addirittura sarebbe diventato presidente del Sud Africa? Sono accadute così tante cose negli ultimi vent'anni…sono convinto che qualsiasi cosa può accadere se le persone si ribellano nel modo giusto, facendosi valere per quello che è giusto.” Una bella frustata di energia anche per la vecchia Europa.

Capitalism: a love story USA, 2009, durata 127’ di Michael Moore con Michael Moore documentario





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