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Oggetto recensito:
I Virtuosi di San Martino in "La Repubblica di Salotto"
di: francesco urbano




Il 23 settembre 1943, in una frenetica pantomima di consultazioni e di ambizioni conflittuali tra i gerarchi del dissolto regime, sotto la diretta supervisione tedesca e in un contesto di subordinazione alle esigenze militari ed economiche del Reich, nasce la Repubblica di Salò. Il 22 dicembre 2009, in un’atmosfera ammorbata da quotidiane (in)subordinazioni mass-mediatiche, violenza sociale e atti (im)politici nasce “La Repubblica di Salotto”, che Roberto Del Gaudio (voce), Federico Odling (orchestrazione e violoncello), Vittorio Ricciardi (flauto), Antonio Garbardella (violino), Dario Vannini (chitarra), ovvero I Virtuosi di San Martino, hanno fatto debuttare, in “prima assoluta”, al Nuovo Teatro Nuovo (co-prodotto con BAM Teatro). Accostare i due avvenimenti potrebbe sembrare azzardato o forzato ma a suggerire questa assimil-azione tra il “salotto” titolante il lavoro scritto da Del Gaudio e musicato da Odling e la “Salò” della pre-disfatta fascista è proprio la paradossale intuizione semantica che contiene in sé devianze, soprusi, ignoranze, arroganze irrisolvibili. Ebbene sì: se “giogo” di parole deve essere, sia. Perché brani come “Elegìa Marron”, “Il leccaculo”, “La Repubblica di Salotto”, “La presenzialista”, “Faccio l’off”, “Napule”, “Coro dei cocainomani”, “Il cantautore morto”, “Il moderato”, “La donna in forma”, “Disoccupato a Natale”, possiedono la sardonica consapevolezza dell’analisi lucida e del ragionamento critico e indignato attraversato di politica, costume, folclore, società, teatro, intellighenzia, morale e, al contempo, vengono proposti al pubblico col prefisso “de”. Cioè, de/costruendo retoriche consolidate, de/generando significati imprevisti, de/limitando null’altro che la durata dell’esecuzione. Roberto del Gaudio gode del dono (in realtà non gli è stato regalato proprio nulla, anzi, le cose che scrive e canta e re-cita sono il frutto di riflessioni affatto ponderate) dell’ubiquità del senso: i suoi testi esistono in contemporanea in più luoghi dell’intelletto pensante e della plumbea concretezza partenopea; agiscono da cinico antidoto per affrontare il quotidiano disfacimento della nostra società e da suicidante segno di civile nichilismo. L’apparente levità delle parole e la cameristica soavità delle partiture sonore sommandosi generano proprio l’effetto di abbattersi come una mannaia sulle (in)coscienze intorpidite e sonnacchiose. L’eloquenza dei titoli dei brani eseguiti e l’eloquio dei contenuti fa vicendevole contraltare ai “break” e ai “salotti” che compongono la scaletta di questa “res pubblica”. E’ un modo per far riprendere fiato ai pensieri e predisporli alle successive intuizioni, invettive, riflessioni, demolizioni; prima di un paio di bis quali “’O liberista ‘nnammurato” e la celeberrima “Vacaputanga” di Nanni Svampa. Andate a vederli e ascoltarli, ma fatelo con attenzione! Francesco Urbano





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