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Oggetto recensito:
I 'SEGNI' DEL WESTERN (UNA BREVE NOTA)
di: lorenzo velle




In un vecchio numero di “Cinema Nuovo” Guido Aristarco osserva che nel dilemma “donna o cavallo”, ironicamente adombrato nel ’44 da Howard Hughes in Il mio corpo ti scalderà, il secondo aveva la meglio sulla prima: i due pionieri protagonisti preferivano l’animale al corpo irresistibile di Jane Russell. Solo dieci anni dopo negli Spostati di John Huston, il dilemma viene risolto a favore della donna, non perché si tratti di Marylin Monroe, ma perché appunto quel film non è un western. Il cavallo è il primo e più codificato “oggetto convenzionale” all’interno del genere. Il grande cielo (1952) di Howard Hawks, è la storia dell’attraversamento, da parte di alcuni cacciatori di pellicce, di un tratto di frontiera che passa trasversalmente, per le avanzate fluviali, il grande bacino centrale del Missouri. In questo western-Odissea Hawks semina tutti gli stereotipi che fanno del film un “classico della prateria”, tende a far coesistere la preistoria (l’animale da scuoiare), le popolazioni aborigene (gli indiani) il feudalesimo (i razziatori di bestiame), nel segno della storia (la nascita di una società sui fiumi), con il mito (l’approdo di un viso pallido alla soluzione quieta del focolare domestico con la bella pellerossa). Il Western è il luogo della ripetizione infinita, “quella degli stessi miti che consacrano un ordine senza sosta minacciato, e senza sosta ristabilito. Si tratta sempre di essere in condizione di rifare al momento voluto, lo stesso gesto”, scrive Bernard Dort; e John Sturges: “Un western deve assomigliare agli altri western, il western è un divertimento formale, ci sono il bene e il male, un inseguimento, un duello, è del tutto inutile voler fare dei western diversi. Ciò che è necessario è fare lo stesso western, ma fare meglio e altrimenti”. Nel Grande cielo il viaggio dei cacciatori è il contenitore di segnali specifici del “genere”: Boone Caudill (Dewey Martin) è l’eroe che resta con Teal Eye, la principessa blackfoot, Jim Deakins (Kirk Douglas) è il ritorno, il viaggio; gli avventurieri cantano il loro esilio lungo il fiume, attorno al fuoco dell’accampamento; manca il caffè ma è sostituito da un “marmittone”; circola molta acquavite, l’indiano Poordevil (Pelle e ossa, Hank Warden) è continuamente ubriaco; è sconosciuto il formaggio tra le cibarie di rito. Nell’amorevole “bestiario” del “genere”, codificato dalla critica francese, la mitologia consta di altri ingredienti senza i quali il western non esisterebbe. Le armi da fuoco hanno una funzione base; nel loro esser sospese ai lati o serrate all’avambraccio incrinano lo spirito di violenza e l’istinto di sopravvivenza; i banditi dediti all’abigeato sono i nuovi regnanti delle ferrovie nei paesi delle mandrie (Linea Missouri-Pacific); il bisonte resta la risorsa principale dei pionieri che nella storia del western hanno decimato le mandrie, riducendo i pochi esemplari sopravvissuti nelle riserve. E non è diverso il discorso sugli indiani: purtroppo, a parte pochi casi (Il grande cielo, L’amante indiana), seguono il destino delle mandrie. Il duello a pugni nudi (le scazzottate), è un rito permanente che coinvolge la moralità del protagonista contro quella di chi minaccia la sua esistenza fisica, la sua donna, i suoi averi; delle immagini del riposo vicino al fuoco con la tazza di fumante bevanda, si è detto prima, ma non si è ancora citato i “vecchio” spesso ubriaco, scroccone e imbroglione che in Hawks è il narratore onnisciente Zeb, che tutto sa e tutto ha visto. Nel 1966 arriva Le colline blu di Monte Hellman. Qui il regista va molto oltre le operazioni del “cinema tra virgolette” dei suoi giovani colleghi; Hellman si rende conto che trasformando il genere e decodificandolo non ottiene la modificazione del rito, bensì l’eliminazione; sa che cambiare la struttura del western vuol dire passare a un altro “genere”. Il western, infatti, non sopporta modificazioni, o non è un western; dice John Sturges: “Se volete fare un nuovo western dovete cambiare solo i cavalli, lasciare in pratica le cose al loro posto. Nemmeno l’Eroe è modificabile, una caduta del divino Ulisse (o Enea), è intollerabile. Il New Western degli anni ’60 rappresenta proprio la realizzazione del western precedente, la sua capacità di imitarsi per poter sopravvivere: Soldato Blu, Piccolo grande uomo, Ucciderò Willie Kid, dimostrano che non è sufficiente cambiare i contenuti e scambiare i buoni con i cattivi. Il vecchio western paradossalmente rigenera se stesso in forma di “calco” e di “ideologia”, a volte è nostalgia e solo raramente (vedi Peckinpah), il genere viene rinnovato, ma solo per sancirne la gloriosa morte. Monte Hellmann lavora il western ai fianchi e morde nei nessi strutturali. “Il viaggio dei tre cowboy, scambiati per banditi, verso Waco (Texas), è narrato con un realismo oggettivo e radicale, denso di verità fisica, di note di vestiario, di oggetti, di paesaggi, di costruzioni, di fatti e di gesti ripresi nella loro stretta letteralità, dove Billy Spear (Jack Nicholson) è un vero contadino, spigoloso nei tratti, scavato inaridito da una ripetizione meccanica dell’esistenza quotidiana.” (Gianni Volpi). La cronaca della caccia dei tre uomini da linciare è scabra ed essenziale, alla fine si vede solo un sopravvissuto che non si interroga su nulla. Dal racconto emerge la concreta condizione dell’uomo in una società violenta, forse l’America della contestazione. Hellman addiziona ai già rimarchevoli topoi del vecchio western dettagli minuziosi e attenti alla verità oggettiva degli ambienti e dei personaggi: lo schema narrativo si carica di mistero e incomunicabilità; il montaggio tende a rendere scuro il senso a vantaggio del dettaglio, che, con pochi tocchi rivela la verità e la trama interna del “genere”. Il mito, la favola e l’avventura sono lo scheletro di una mitologia letteraria. La verità che viene dall’insistenza della “camera” su alberi, erba ciottoli di piste in Hellman è un’altra: lo scontro tra l’uomo e le cose, i profondi problemi della condizione umana, la vita e la morte, la lotta contro il deserto e la fatica, la sete, i rapporti di dominio tra gli uomini. Hellman mina le convenzioni alla radice. Solo con molta fatica, i suoi film possono essere definiti western, inutilmente altri li chiama “western da camera”: Nicholson, il protagonista di Colline Blu è un eroe poco convenzionale nell’economia del film (e del “genere”); somiglia già al futuro mister Locke di Professione Reporter più che ai pionieri di Hanks. Forse Hellman chiude davvero i conti con le convenzioni. Del western resta un’idea del vestiario dei cowboy, anche i cavalli cambiano. Il western degli anni dagli Ottanta in poi è puro esercizio di stile senza stile (Silverado), commemorazione spesso convincente (Balla coi lupi, Open Range), stanco remake di registi tuttofare (Quel treno per Yuma – versione Mangold), operazione nostalgia a freddo (Appaloosa), indagine psicanalitica velleitaria (L’assassinio di Jesse James da parte del codardo Robert Ford). Ai mistificatori del “genere”, agli impotenti restauratori del Mito della Frontiera, è arrivata da Clint Eastwood la grande lezione commemorativa, fordiana. A lui dobbiamo western che gareggiano e pareggiano i conti con la classicità; ma a lui dobbiamo la definitiva, ineluttabile sepoltura del western e del Sogno Americano.





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