
Oggetto recensito:
Gino Vannelli live al The Place, Roma 6/7 marzo 2010. Nonostante il successo planetario ottenuto grazie ad una serie di hit alla fine degli anni settanta e nei primi ottanta che gli hanno procurato una schiera di fan in tutto il mondo, garanzia di una vecchiaia tranquilla e agiata, il cantautore canadese con profonde radici italiane ha continuato a sperimentare e cercare nuove strade per la sua creatività. Modesto e quasi schivo, con pose e abbigliamento da pop star, ha rappresentato per anni lo stereotipo del sex symbol pur essendo felicemente unito alla sua compagna sin dal '74. Questi contrasti sono apparsi evidenti ancora una volta nel suo ultimo mini-tour italiano, quasi clandestino, con esibizioni al Blue Note di Milano e ,appunto, nell'accogliente e raccolto The Place di Roma. L'occasione si presentava ghiotta. C'erano da presentare ben due raccolte di composizioni: A Good Thing con nove nuovi pezzi eseguiti insieme a vari session men statunitensi ed europei, arricchito da ventitre poesie e soprattutto Stardust in the Sand con tredici brani noti completamete riarrangiati insieme al suo quintetto americano, accompagnati da una ricca autobiografia. Vestito con un giubbotto di pelle zebrato all'interno, jeans improbabili, stivaletti 'camperos' vintage e la solita capigliatura debordante appena imbiancata (anche per lui si avvicinano i sessanta) Gino ci ha spiazzati ancora una volta. Accompagnato dal Quartetto d'Archi Archimia (Tedesi, Costanzo, Del Soldà e Anzalone), dal contrabbasso di Riccardo Fioravanti, dal flauto di Andres Villani e soprattutto dal piano di Mario Rosini, il nostro ha riproposto alcune delle sue composizioni più celebri. Come abbia fatto con questa strumentazione a rendere credibili le versioni di Brother To Brother, I Just Wanna Stop , Wild Horses e People Gotta Move (il bis) tra le altre, è dovuto alle sue capacità di arrangiatore che hanno dimostrato, se ce ne fosse bisogno, che siamo di fronte ad un musicista vero, capace di plasmare la propria espressività artistica in base ad una spiccata sensibiltà. L'adattamento ha reso più 'drammatiche' le liriche (struggente I Die A Little More Each Day) senza perdere la bellezza delle melodie. La voce, sempre potente e perfettamente intonata, e il piano hanno interagito in un costante interplay. La base ritmica era costituita semplicemente dai colpi dei suoi stivali sulle assi di legno del palco. Certo, ci sono stati anche momenti più deboli (Canto è riuscita solo a darci una dimostrazione della sua scarsa dimestichezza con la lingua italiana) come, del resto, nel corso della sua carriera. E coloro i quali pensavano di poter incasellare Gino all'interno di una specifica categoria possono essere rimasti delusi. Ma in complesso l'evento ha confermato che ci troviamo di fronte ad un artista che è riuscito a creare una fusion nella quale i concetti di pop, rock, jazz e classica appaiono obsoleti per descrivere un approccio totale alla musica. E, soprattutto, che 'l'abito non fa il monaco'.
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