
Oggetto recensito:
"Gerry" (2002) di Gus Van Sant
Due ragazzi imboccano un wilderness trail, per poi perdersi nel silenzio onnipresente di una natura difficile; finiranno per soccombere di fronte la vastità della vita e della via che hanno lasciato. Si parlano, ma tutto è vano. Il silenzio, poi l'immobilità, la confusione della mente, i miraggi, il nulla, l'abbandono. Gerry delira, cerca l'acqua mentre Gerry esita, lo aiuta. Anche in "Belli e dannati" due ragazzi percorrono una strada, in moto, in una distesa geometrica, ipnotica, sconfortante per la difficoltà a stadilire una direzione, una direzione da assegnare alle proprie esistenze. Questo film è quasi un documentario lento, ritmato dai battiti dei cuori dei due ragazzi dal simbolico nome Gerry. "I mean, there were so many just different Gerries along the way... " Anche il linguaggio è parte del loro mondo, inscindibile, tanto che certi termini e verbi non possono essere altrimenti concepiti: "we could have just Gerried off", "we Gerried off", "we totally Gerried the scout-about", "you Gerried the rendezvous". Uno solo dei due uscirà dall'incubo, dalla iniziazione fisica, dal percorso imposto: solo una parte di sé, solo uno dei gemelli avrà la meglio e la possibilità di sopravvivenza. Ne uscirà rafforzato? Occorerebbe conoscere la sua vita futura. "I thought maybe you'd succumbed." "I almost did succumb, but then I turbanned up, and I feel a lot better." Girato in Argentina, Utah e Death Valley con immagini notevoli, nuvole in primis. Gerry è il primo film della "Trilogia della Morte" di Van Sant, con "Elephant" e "Last Days". Le musiche dell'estone Arvo Pärt, esponente del minimalismo sacro, contribuiscono ad accrescere il senso di straniamento proprio di tutto il film.
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