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Oggetto recensito:
film: Cesare deve morire
di: Angela Laugier




Non è facile parlare di questo complesso film, meritato Orso d’oro a Berlino, degli ultraottantenni fratelli Taviani, felicemente tornati fra gli amanti, come me, del loro cinema. In realtà, Cesare deve morire non è di per sé un film “difficile”: non contiene né messaggi criptici, né significati reconditi, e, d’altra parte, ci presenta una tragedia shakespeariana molto nota, il Giulio Cesare. Quest’opera, però, è il pretesto per far recitare alcuni detenuti, che non sono detenuti qualsiasi, in quanto stanno scontando la loro pena, nel braccio speciale di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Si tratta di uomini dal passato sciaguratissimo, mafiosi e camorristi che hanno compiuto efferati omicidi, o che hanno organizzato traffico di stupefacenti. Essi stessi ce ne parlano, mentre si presentano a noi, protagonisti di uno spettacolo che ha davvero del prodigioso di cui il film ci racconta la nascita e lo svolgersi, permettendoci perciò di seguire gli “attori” in quel carcere, che è, soprattutto, tempo vuoto “en attendant Godot”, fissando il soffitto dal letto su cui passano ore interminabili, fino alla fine della pena, che è di decenni o che è per sempre. L’angoscia claustrofobica di questa condizione è sottolineata dagli spazi angusti, dai tortuosi corridoi in cui si muove la popolazione carceraria, dallo scatto secco degli spioncini che vengono chiusi dopo ogni rientro nelle celle, dalle finestre colle sbarre, da cui non filtra molta luce, dai cattivi odori che, anche se non si sentono, vengono evocati durante le prove della recita. Sembrerebbe un film di genere, un film carcerario, ma non è così: non perdiamo infatti mai la coscienza che quello che vediamo è la realtà quotidiana di questi uomini, così come comprendiamo sempre con chiarezza che questi assassini, rapinatori, spacciatori rimangono uomini, nonostante la colpa, di cui ora pagano il fio. La fiducia nella loro umanità è alla base del progetto che porta avanti da molti anni il regista teatrale Fabio Cavalli (indispensabile tramite dei fratelli Taviani, per questo film), il quale ha allestito con loro molte letture dantesche, scommettendo sulla possibilità di far emergere quella coscienza di sé che nasce quando si ha l’occasione di raffinare il proprio sentire, grazie anche alla meditazione dei grandi classici, poiché la violenza, gli impulsi primordiali, comuni a tutti gli uomini, si possono disciplinare (o come direbbe Freud “sublimare”), attraverso un percorso catartico di riflessione e di educazione della sensibilità. La proposta di un lavoro più complesso, quale la messa in scena del Giulio Cesare, con i sacrifici che avrebbe comportato, in termini di studio e di prove, accettata favorevolmente dai detenuti, è diventata per i Taviani l’occasione di un felicissimo ritorno a fare cinema. L’impronta del cinema autoriale è nel predominante bianco e nero delle scene, alternato al colore squillante di poche scene (i rari ricordi felici dei carcerati, i momenti di gioia collettiva per la riuscita dello spettacolo, i bellissimi quadri della tragedia che visivamente sembrano evocare molta pittura di David), ma anche nella scelta della lingua, quella più comunemente usata dagli attori, il dialetto, nonché nell’attenzione ai momenti di crisi, quelli in cui il testo famoso, diventa quasi l’eco del sentire individuale degli interpreti: tale e tanta è la sua verità, che si rende necessaria più di una pausa, affinché un’esperienza dolorosa possa essere vista dall’attore col distacco che si richiede a chi voglia recitare davvero! Si esce molto emozionati da questa visione, catartica davvero per tutti.





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