LE GUIDE
Guida ai consumi contro la crisi
E' in libreria la terza Guida di Giudizio Universale. Tra i consigli di Lubrano e le vignette di Vauro, un volume per il consumatore attento sia al proprio portafoglio che all’etica e all’ambiente. Ecco alcuni brani da leggere in anteprima
di Antonio Lubrano e Vauro
Dalla A di Abbuffata alla Z di Zero, passando per Class action, Garanzia, Low cost e Sfuso, un dizionario prezioso per il nuovo cittadino anticonformista
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Per i nostri lettori una selezione da alcune delle voci
Acqua
Per la storia, il movimento di rivalutazione dell’acqua di casa è cominciato già tra la fine del 2007 e il 2008, quando sulle mense scolastiche di diverse città – Roma, Firenze, Bologna, Milano, Genova, Torino, Alessandria – sono comparse le brocche di oro blu al posto delle bottiglie di plastica. Sono dunque i bambini delle materne, delle elementari, delle medie, i consumatori controcorrente. In un Paese come il nostro, che detiene il record mondiale di consumo di acqua minerale (190 litri pro capite all’anno), è un bell’atto di coraggio. E le famiglie, si è chiesto qualcuno, accettano l’esperimento, convinte come sono in maggioranza che la minerale sia più sicura? Sì, le famiglie si fidano. D’altro canto non pare che il mercato dell’acqua in bottigliaabbia subito dei contraccolpi pesanti. Le 350 marche italiane vendono tranquillamente e la spesa media di ogni nucleo familiare è di circa 300 euro all’anno; però nell’opinione comune vacilla l’idea della sicurezza assoluta e delle proprietà quasi miracolose che la pubblicità attribuisce alla minerale. Del resto tutte le analisi che i periodici specializzati conducono di anno in anno, attingendo alle fontanelle pubbliche di decine di città, appaiono rassicuranti: gli acquedotti rispettano i severi limiti imposti dalla legge, che nel 2001 accolse una direttiva europea sulle acque destinate al consumo umano. E poi i controlli delle aziende comunali confermano che l’acqua del rubinetto “non ha nulla da invidiare alla parente arricchita chiusa in bottiglia”. Due soli esempi: La Spezia, dove l’acqua è monitorata 100 volte al giorno, e Roma, dove le analisi sono 250mila all’anno.
Asterisco
Sull’omogeneizzato di carne c’è scritto in bella evidenza manzo prosciutto. Accanto alla parola prosciutto c’è però un asterisco, che rimanda a una nota esplicativa in fondo all’etichetta. In caratteri microscopici, naturalmente. La giovane mamma, che sta facendo la spesa al supermercato, legge la nota “Coscia di maiale non stagionata” e si chiede interdetta: che vuol dire? Una cosa sola: che non è prosciutto. E dunque quel titolo è un inganno. Ma può accadere di peggio. Fece molto scalpore qualche anno fa il caso di una vettura americana lanciata sul mercato a meno di settemila euro, una vera e propria offerta speciale. Anche qui ai piedi della réclame cinque righe di nota spiegavano che un tale prezzo stracciato era possibile “grazie agli incentivi statali, in caso di rottamazione di un veicolo euro 0 o euro 1”, ossia di una macchina antiecologica. Di solito per offerta speciale s’intende uno sconto sul prezzo di listino. L’incentivo statale, invece, è un’agevolazione che lo Stato fa all’acquirente per incrementare la lotta all’inquinamento. E dunque potevano sorgere equivoci. Come se non bastasse, la stessa nota precisava che l’offerta era valida “nelle concessionarie che aderiscono all’iniziativa”. Ebbene, Il Salvagente, settimanale dei consumatori, fece una rapida indagine tra i concessionari di mezza Italia. La risposta fu categorica: lasciate perdere il prezzo promozionale, quello vero oscilla tra gli 8300 e i 9000 euro. Viene voglia di chiedersi: ma se l’eventuale compratore scopre in tempo il trucco, non ci rimette l’immagine dell’azienda? Il fatto è che molti consumatori ci cascano e la pratica dell’asterisco dilaga.
Boicottaggio
Siamo sicuri che la parola consumatore sia ancora valida? Definisce compiutamente il ruolo del cittadino sul mercato? Treccani dà una spiegazione lapalissiana: consumatore è “chi consuma, o anche, più genericamente, chi acquista beni economici, qualunque carattere abbia il consumo o l’acquisto (di godimento, produttivo o distruttivo)”. Io, invece, nutro da tempo il sospetto che nel vocabolo vi sia una valenza passiva che stride fortemente con la figura del cittadino del terzo millennio. A sua volta, l’economista Mario Deaglio osserva che consumatore è una persona che accetta ciò che l’industria produce e non reagisce, non partecipa in alcun modo al processo creativo. Ed è qui che il mio piccolo rovello cresce. Non si può ignorare, infatti, il graduale mutamento della figura. Giampaolo Fabris, il più famoso sociologo dei consumi, purtroppo di recente scomparso, sostiene che il consumatore manifesta “una crescente indipendenza nelle scelte, si è trasformato in un professionista dell’acquisto, dimentico di antiche soggezioni e riverenze”. Io stesso negli anni di Mi manda Lubrano ho seguito questa metamorfosi e ho teorizzato la nascita di una nuova eresia: l’infedeltà crescente alla marca. Ma non riesco a diradare l’ombra che incombe sulla parola consumatore per una ragione fondamentale: la potenza delle imprese multinazionali, che riesce a condizionare in un modo o nell’altro i comportamenti delle persone e che mette in dubbio la crescente indipendenza di cui parla Fabris. Perciò oggi più di uno studioso parla di “dominio del consumatore”, nel senso che le multinazionali hanno la capacità di produrre quantità planetarie in qualunque angolo del mondo dove la manodopera sia a costo quasi zero e di imporre poi il prodotto sul mercato mondiale con mezzi propagandistici spettacolari, martellanti. Bisognerebbe coniare dunque un termine nuovo, non più cliente né utente, né consumatore; ma questo è un compito che spetta ai linguisti. Nell’attesa, però, la nostra perplessità è alimentata da una semplice constatazione: i singoli individui, i consumatori appunto, non sono in grado di far mutare atteggiamento alle multinazionali i cui metodi di produzione risultano spesso immorali e sono fonte di scandali…
Felicità
Il consumo rende felici? Chiediamocelo per favore, solo apparentemente l’interrogativo è bizzarro. Pierre Laclos, scrittore francese del ’700, diceva: “La felicità consiste nell’ottenere ciò che si desidera”. Io aggiungerei: o ciò che ci inducono a desiderare. Perché, bisogna riconoscerlo, la società dei consumi trasforma gli essere umani in pedine nelle mani del Signor Marketing. Siamo pilotati, se è vero che marketing è “quell’insieme di attività che mirano a influenzare una scelta del consumatore”, quelle che tendono a capire ciò che vuole o sogna, tutte protese a comprendere i bisogni del cliente e a ricavare dalla sua soddisfazione il maggior profitto. Mi è rimasta impressa una definizione del “fare marketing”: trasformare in prodotto i sogni e i desideri del mercato. Come vedete, la domanda “il consumo rende felici?” non è poi così peregrina. In fin dei conti la felicità è fatta di piccole cose. Per esempio, le mele. All’epoca del boom economico si scoprì che le mele macchiate, quelle piccole, quelle da cui ogni tanto si affacciava un vermetto, restavano invendute, mentre le varietà tirate a lucido andavano a ruba. Le aziende agricole si attrezzarono e sul mercato le mele belle, rosse squillanti, cacciarono via le brutte. Un dominio che dura tuttora, anche se il solito Signor Marketing con la consueta ricerca di mercato ha scoperto che adesso l’aria è cambiata e va bene anche la mela annurca, fino all’altro ieri cenerentola: con l’avvento del prodotto biologico, infatti, il bello non basta più. Ed è così vero che anche Bruxelles ha fatto marcia indietro: la commissaria europea per l’agricoltura, Mariann Fisher Boel, ha promosso la rivalutazione della frutta esteticamente infelice, decidendo che in tempo di tempesta si può anche non badare alla bellezza per avvantaggiare la tasca dei consumatori. E così sono caduti i veti per la frutta e la verdura “brutta e non in linea con gli standard europei su forma, dimensione, peso e calibro”. Che senso ha, del resto, con questi chiari di luna, vietare la vendita delle banane lunghe meno di 14 cm o delle arance con un diametro inferiore ai 5,3 cm?
Garanzia
Non c’è verso di farla rispettare. I commercianti continuano a cadere dalle nuvole quando un cliente richiama la garanzia europea, che dura ventiquattro mesi e non dodici. La disposizione, che la legislazione italiana ha accolto nel febbraio del 2002, fa parte del Codice del consumo e tutela l’acquirente ogniqualvolta un prodotto rivela un difetto, dal televisore che perde il segnale al telefonino che non squilla, dall’asciugacapelli che fa le scintille ed è pure pericoloso al giocattolo telecomandato che non funziona, fino al pezzo di ricambio dell’auto. La norma stabilisce che è il venditore a rispondere del vizio e non il produttore. Sarà il negoziante, poi, a rivalersi sulla casa madre. Quando il cliente mostra lo scontrino dell’acquisto, il commerciante di solito guarda la data e sentenzia: “Ma la garanzia è scaduta”. E se uno giustamente replica “No, guardi che dura due anni”, il venditore nicchia: “Ah sì? A me risulta un anno”. Nel migliore dei casi ritira l’oggetto della discordia e lo spedisce al centro di assistenza della ditta produttrice. Passano settimane, talvolta mesi e recuperarlo finalmente funzionante diventa spesso un calvario.
Light
Va detto subito che i prodotti light hanno un unico obiettivo: allettare il consumatore pigro. Un mercato vastissimo, badate: dalla relazione sullo stato sanitario del Paese si evince che il 40,2% degli italiani non pratica un’attività fisica o sportiva. Per il poco movimento molti, forse troppi, si ammalano di pigrizia. Ecco che l’industria corre in aiuto di questo quaranta per cento di connazionali, inventando il light. I prodotti light sono cari, nel senso non affettuoso del prezzo, ma contengono per paradossale contraddizione sostanze o ingredienti meno costosi, oltre che un numero ridotto di calorie (considerato il loro pregio principale). L’idea della leggerezza è vincente e, con l’obesità in agguato, chi volete che non si lasci tentare? Ma vediamo cosa c’è dentro. Nella bibita light, per citare uno di questi prodotti in voga, lo zucchero è sostituito dalla saccarina o da altri edulcoranti artificiali che hanno una quotazione di molto inferiore. Il formaggio light: una buona parte del grasso è sostituita dall’acqua, con aggiunta di additivi. In certi formaggi al grasso subentrano le proteine del latte che dimezzano le calorie. La maionese light: l’ingrediente principale è l’olio, 9 calorie per grammo. Se si riduce il quantitativo di olio e si introduce l’acqua, gratuita e priva di calorie, la salsetta peso piuma è servita. E poi la margarina light, il burro light, i biscotti light, persino il cioccolato light, al quale si sottrae il burro di cacao, con tanti saluti al sapore del fondente.
Olio extravergine
Diciamo la verità, l’Europa non ama il tipico. E noi italiani, che di cibi tipici siamo straricchi, ne soffriamo, perché ogni tanto qualche lobby del nord ci costringe a lunghe quanto estenuanti trattative, che non sempre si concludono a nostro favore. La logica delle lobby è fin troppo palese: unificare i gusti perché così il prodotto industriale allarga a dismisura il suo mercato. Se nell’Unione europea c’è un paese che sfugge a questo imperativo, continuando a difendere la sua tipicità, questo paese dà fastidio. L’olio extravergine d’oliva è il simbolo più clamoroso della reticenza europea per l’eccellenza tipica. Ci sono voluti anni perché finalmente sulle bottiglie comparisse l’origine: olio extravergine prodotto con olive italiane. In precedenza bastava dire che le olive, non si sa di quale paese, erano state spremute in un frantoio italiano, per garantire alla bottiglia il marchio del made in Italy. E, malgrado la lunga battaglia, i problemi del nostro olio permangono e con la crisi si ingigantiscono. Iniziamo dal prezzo. Quello dell’olio extravergine di oliva rappresenta un piccolo mistero. Come è possibile che una bottiglia di extravergine costi 3 euro e talora anche 2.90, quando si sa che un extravergine di qualità sta sui 7-8 euro, se non di più? Che olio si vende, realmente, nei supermercati italiani? Può essere vera, allora, la tesi del New Yorker ripresa da alcuni quotidiani, secondo la quale in Italia circola molto extravergine adulterato con olio di nocciola importato?
Quasi-banca
L’etichetta è una classica semplificazione giornalistica. Ufficialmente, secondo una legge del gennaio 2010 in vigore dall’1 marzo dello stesso anno (in accoglimento di una direttiva europea), le quasi-banche si chiamano istituti di pagamento. Perché diciamo“quasi”? Perché somigliano ma non lo sono. Raccolgono denaro, però non danno alcun interesse sui depositi, concedono piccoli prestiti (estinguibili in 12 mesi e finalizzati ad un acquisto specifico), però non trattano titoli né mutui. I consumatori possono aprire un conto in queste quasi-banche depositando lo stipendio, la pensione o il gruzzolo che tengono da parte ma non devono confonderlo con un conto corrente. Si tratta in realtà di un “conto di pagamento” che permette loro una serie di operazioni simili a quelle che si fanno oggi in banca: versare contanti, prelevare, pagare bollette e multe, inviare un bonifico o riceverlo, spedire soldi all’estero, ricevere o fare pagamenti online utilizzando il telefonino o il computer. Qualcuno ha parlato di rivoluzione. E in realtà sotto vari aspetti è così. Innanzitutto cade il monopolio di banche e poste per i conti correnti e quindi dovrebbe aumentare la concorrenza. Il nuovo strumento evita i costi fissi di un conto bancario, è utile per gli acquisti via internet e questo si suppone che invoglierà quei giovani che finora si tengono lontani dagli istituti di credito. Ma chi può proporre conti di pagamento? Gli operatori che vantano già una vasta clientela: i supermercati, le società telefoniche, gli autogrill, le aziende televisive. Gli istituti di pagamento nascono con un capitale minimo che va da 25mila a 125mila euro, devono essere autorizzati dalla Banca d’Italia (per cui sono sotto controllo) e sono obbligati ad aderire all’Abf, ossia all’Arbitro bancario e finanziario, una sorta di difensore civico del consumatore. In parole povere la differenza è questa: se la banca ti aiuta a risparmiare, l’istituto di pagamento ti aiuta a spendere. È comprensibile dunque che i primi fondatori delle Qb si chiamino Coop, Carrefour, Sma, e forse i prossimi saranno Telecom o Vodafone, le Ferrovie dello Stato, le tv digitali. A questo punto ci chiediamo: la concorrenza delle quasi-banche porterà ad una maggiore e reale trasparenza delle banche vere? Speriamo di sì. La aspettiamo da decenni.
Per la storia, il movimento di rivalutazione dell’acqua di casa è cominciato già tra la fine del 2007 e il 2008, quando sulle mense scolastiche di diverse città – Roma, Firenze, Bologna, Milano, Genova, Torino, Alessandria – sono comparse le brocche di oro blu al posto delle bottiglie di plastica. Sono dunque i bambini delle materne, delle elementari, delle medie, i consumatori controcorrente. In un Paese come il nostro, che detiene il record mondiale di consumo di acqua minerale (190 litri pro capite all’anno), è un bell’atto di coraggio. E le famiglie, si è chiesto qualcuno, accettano l’esperimento, convinte come sono in maggioranza che la minerale sia più sicura? Sì, le famiglie si fidano. D’altro canto non pare che il mercato dell’acqua in bottigliaabbia subito dei contraccolpi pesanti. Le 350 marche italiane vendono tranquillamente e la spesa media di ogni nucleo familiare è di circa 300 euro all’anno; però nell’opinione comune vacilla l’idea della sicurezza assoluta e delle proprietà quasi miracolose che la pubblicità attribuisce alla minerale. Del resto tutte le analisi che i periodici specializzati conducono di anno in anno, attingendo alle fontanelle pubbliche di decine di città, appaiono rassicuranti: gli acquedotti rispettano i severi limiti imposti dalla legge, che nel 2001 accolse una direttiva europea sulle acque destinate al consumo umano. E poi i controlli delle aziende comunali confermano che l’acqua del rubinetto “non ha nulla da invidiare alla parente arricchita chiusa in bottiglia”. Due soli esempi: La Spezia, dove l’acqua è monitorata 100 volte al giorno, e Roma, dove le analisi sono 250mila all’anno.
Asterisco
Sull’omogeneizzato di carne c’è scritto in bella evidenza manzo prosciutto. Accanto alla parola prosciutto c’è però un asterisco, che rimanda a una nota esplicativa in fondo all’etichetta. In caratteri microscopici, naturalmente. La giovane mamma, che sta facendo la spesa al supermercato, legge la nota “Coscia di maiale non stagionata” e si chiede interdetta: che vuol dire? Una cosa sola: che non è prosciutto. E dunque quel titolo è un inganno. Ma può accadere di peggio. Fece molto scalpore qualche anno fa il caso di una vettura americana lanciata sul mercato a meno di settemila euro, una vera e propria offerta speciale. Anche qui ai piedi della réclame cinque righe di nota spiegavano che un tale prezzo stracciato era possibile “grazie agli incentivi statali, in caso di rottamazione di un veicolo euro 0 o euro 1”, ossia di una macchina antiecologica. Di solito per offerta speciale s’intende uno sconto sul prezzo di listino. L’incentivo statale, invece, è un’agevolazione che lo Stato fa all’acquirente per incrementare la lotta all’inquinamento. E dunque potevano sorgere equivoci. Come se non bastasse, la stessa nota precisava che l’offerta era valida “nelle concessionarie che aderiscono all’iniziativa”. Ebbene, Il Salvagente, settimanale dei consumatori, fece una rapida indagine tra i concessionari di mezza Italia. La risposta fu categorica: lasciate perdere il prezzo promozionale, quello vero oscilla tra gli 8300 e i 9000 euro. Viene voglia di chiedersi: ma se l’eventuale compratore scopre in tempo il trucco, non ci rimette l’immagine dell’azienda? Il fatto è che molti consumatori ci cascano e la pratica dell’asterisco dilaga.
Boicottaggio
Siamo sicuri che la parola consumatore sia ancora valida? Definisce compiutamente il ruolo del cittadino sul mercato? Treccani dà una spiegazione lapalissiana: consumatore è “chi consuma, o anche, più genericamente, chi acquista beni economici, qualunque carattere abbia il consumo o l’acquisto (di godimento, produttivo o distruttivo)”. Io, invece, nutro da tempo il sospetto che nel vocabolo vi sia una valenza passiva che stride fortemente con la figura del cittadino del terzo millennio. A sua volta, l’economista Mario Deaglio osserva che consumatore è una persona che accetta ciò che l’industria produce e non reagisce, non partecipa in alcun modo al processo creativo. Ed è qui che il mio piccolo rovello cresce. Non si può ignorare, infatti, il graduale mutamento della figura. Giampaolo Fabris, il più famoso sociologo dei consumi, purtroppo di recente scomparso, sostiene che il consumatore manifesta “una crescente indipendenza nelle scelte, si è trasformato in un professionista dell’acquisto, dimentico di antiche soggezioni e riverenze”. Io stesso negli anni di Mi manda Lubrano ho seguito questa metamorfosi e ho teorizzato la nascita di una nuova eresia: l’infedeltà crescente alla marca. Ma non riesco a diradare l’ombra che incombe sulla parola consumatore per una ragione fondamentale: la potenza delle imprese multinazionali, che riesce a condizionare in un modo o nell’altro i comportamenti delle persone e che mette in dubbio la crescente indipendenza di cui parla Fabris. Perciò oggi più di uno studioso parla di “dominio del consumatore”, nel senso che le multinazionali hanno la capacità di produrre quantità planetarie in qualunque angolo del mondo dove la manodopera sia a costo quasi zero e di imporre poi il prodotto sul mercato mondiale con mezzi propagandistici spettacolari, martellanti. Bisognerebbe coniare dunque un termine nuovo, non più cliente né utente, né consumatore; ma questo è un compito che spetta ai linguisti. Nell’attesa, però, la nostra perplessità è alimentata da una semplice constatazione: i singoli individui, i consumatori appunto, non sono in grado di far mutare atteggiamento alle multinazionali i cui metodi di produzione risultano spesso immorali e sono fonte di scandali…
Felicità
Il consumo rende felici? Chiediamocelo per favore, solo apparentemente l’interrogativo è bizzarro. Pierre Laclos, scrittore francese del ’700, diceva: “La felicità consiste nell’ottenere ciò che si desidera”. Io aggiungerei: o ciò che ci inducono a desiderare. Perché, bisogna riconoscerlo, la società dei consumi trasforma gli essere umani in pedine nelle mani del Signor Marketing. Siamo pilotati, se è vero che marketing è “quell’insieme di attività che mirano a influenzare una scelta del consumatore”, quelle che tendono a capire ciò che vuole o sogna, tutte protese a comprendere i bisogni del cliente e a ricavare dalla sua soddisfazione il maggior profitto. Mi è rimasta impressa una definizione del “fare marketing”: trasformare in prodotto i sogni e i desideri del mercato. Come vedete, la domanda “il consumo rende felici?” non è poi così peregrina. In fin dei conti la felicità è fatta di piccole cose. Per esempio, le mele. All’epoca del boom economico si scoprì che le mele macchiate, quelle piccole, quelle da cui ogni tanto si affacciava un vermetto, restavano invendute, mentre le varietà tirate a lucido andavano a ruba. Le aziende agricole si attrezzarono e sul mercato le mele belle, rosse squillanti, cacciarono via le brutte. Un dominio che dura tuttora, anche se il solito Signor Marketing con la consueta ricerca di mercato ha scoperto che adesso l’aria è cambiata e va bene anche la mela annurca, fino all’altro ieri cenerentola: con l’avvento del prodotto biologico, infatti, il bello non basta più. Ed è così vero che anche Bruxelles ha fatto marcia indietro: la commissaria europea per l’agricoltura, Mariann Fisher Boel, ha promosso la rivalutazione della frutta esteticamente infelice, decidendo che in tempo di tempesta si può anche non badare alla bellezza per avvantaggiare la tasca dei consumatori. E così sono caduti i veti per la frutta e la verdura “brutta e non in linea con gli standard europei su forma, dimensione, peso e calibro”. Che senso ha, del resto, con questi chiari di luna, vietare la vendita delle banane lunghe meno di 14 cm o delle arance con un diametro inferiore ai 5,3 cm?
Garanzia
Non c’è verso di farla rispettare. I commercianti continuano a cadere dalle nuvole quando un cliente richiama la garanzia europea, che dura ventiquattro mesi e non dodici. La disposizione, che la legislazione italiana ha accolto nel febbraio del 2002, fa parte del Codice del consumo e tutela l’acquirente ogniqualvolta un prodotto rivela un difetto, dal televisore che perde il segnale al telefonino che non squilla, dall’asciugacapelli che fa le scintille ed è pure pericoloso al giocattolo telecomandato che non funziona, fino al pezzo di ricambio dell’auto. La norma stabilisce che è il venditore a rispondere del vizio e non il produttore. Sarà il negoziante, poi, a rivalersi sulla casa madre. Quando il cliente mostra lo scontrino dell’acquisto, il commerciante di solito guarda la data e sentenzia: “Ma la garanzia è scaduta”. E se uno giustamente replica “No, guardi che dura due anni”, il venditore nicchia: “Ah sì? A me risulta un anno”. Nel migliore dei casi ritira l’oggetto della discordia e lo spedisce al centro di assistenza della ditta produttrice. Passano settimane, talvolta mesi e recuperarlo finalmente funzionante diventa spesso un calvario.
Light
Va detto subito che i prodotti light hanno un unico obiettivo: allettare il consumatore pigro. Un mercato vastissimo, badate: dalla relazione sullo stato sanitario del Paese si evince che il 40,2% degli italiani non pratica un’attività fisica o sportiva. Per il poco movimento molti, forse troppi, si ammalano di pigrizia. Ecco che l’industria corre in aiuto di questo quaranta per cento di connazionali, inventando il light. I prodotti light sono cari, nel senso non affettuoso del prezzo, ma contengono per paradossale contraddizione sostanze o ingredienti meno costosi, oltre che un numero ridotto di calorie (considerato il loro pregio principale). L’idea della leggerezza è vincente e, con l’obesità in agguato, chi volete che non si lasci tentare? Ma vediamo cosa c’è dentro. Nella bibita light, per citare uno di questi prodotti in voga, lo zucchero è sostituito dalla saccarina o da altri edulcoranti artificiali che hanno una quotazione di molto inferiore. Il formaggio light: una buona parte del grasso è sostituita dall’acqua, con aggiunta di additivi. In certi formaggi al grasso subentrano le proteine del latte che dimezzano le calorie. La maionese light: l’ingrediente principale è l’olio, 9 calorie per grammo. Se si riduce il quantitativo di olio e si introduce l’acqua, gratuita e priva di calorie, la salsetta peso piuma è servita. E poi la margarina light, il burro light, i biscotti light, persino il cioccolato light, al quale si sottrae il burro di cacao, con tanti saluti al sapore del fondente.
Olio extravergine
Diciamo la verità, l’Europa non ama il tipico. E noi italiani, che di cibi tipici siamo straricchi, ne soffriamo, perché ogni tanto qualche lobby del nord ci costringe a lunghe quanto estenuanti trattative, che non sempre si concludono a nostro favore. La logica delle lobby è fin troppo palese: unificare i gusti perché così il prodotto industriale allarga a dismisura il suo mercato. Se nell’Unione europea c’è un paese che sfugge a questo imperativo, continuando a difendere la sua tipicità, questo paese dà fastidio. L’olio extravergine d’oliva è il simbolo più clamoroso della reticenza europea per l’eccellenza tipica. Ci sono voluti anni perché finalmente sulle bottiglie comparisse l’origine: olio extravergine prodotto con olive italiane. In precedenza bastava dire che le olive, non si sa di quale paese, erano state spremute in un frantoio italiano, per garantire alla bottiglia il marchio del made in Italy. E, malgrado la lunga battaglia, i problemi del nostro olio permangono e con la crisi si ingigantiscono. Iniziamo dal prezzo. Quello dell’olio extravergine di oliva rappresenta un piccolo mistero. Come è possibile che una bottiglia di extravergine costi 3 euro e talora anche 2.90, quando si sa che un extravergine di qualità sta sui 7-8 euro, se non di più? Che olio si vende, realmente, nei supermercati italiani? Può essere vera, allora, la tesi del New Yorker ripresa da alcuni quotidiani, secondo la quale in Italia circola molto extravergine adulterato con olio di nocciola importato?
Quasi-banca
L’etichetta è una classica semplificazione giornalistica. Ufficialmente, secondo una legge del gennaio 2010 in vigore dall’1 marzo dello stesso anno (in accoglimento di una direttiva europea), le quasi-banche si chiamano istituti di pagamento. Perché diciamo“quasi”? Perché somigliano ma non lo sono. Raccolgono denaro, però non danno alcun interesse sui depositi, concedono piccoli prestiti (estinguibili in 12 mesi e finalizzati ad un acquisto specifico), però non trattano titoli né mutui. I consumatori possono aprire un conto in queste quasi-banche depositando lo stipendio, la pensione o il gruzzolo che tengono da parte ma non devono confonderlo con un conto corrente. Si tratta in realtà di un “conto di pagamento” che permette loro una serie di operazioni simili a quelle che si fanno oggi in banca: versare contanti, prelevare, pagare bollette e multe, inviare un bonifico o riceverlo, spedire soldi all’estero, ricevere o fare pagamenti online utilizzando il telefonino o il computer. Qualcuno ha parlato di rivoluzione. E in realtà sotto vari aspetti è così. Innanzitutto cade il monopolio di banche e poste per i conti correnti e quindi dovrebbe aumentare la concorrenza. Il nuovo strumento evita i costi fissi di un conto bancario, è utile per gli acquisti via internet e questo si suppone che invoglierà quei giovani che finora si tengono lontani dagli istituti di credito. Ma chi può proporre conti di pagamento? Gli operatori che vantano già una vasta clientela: i supermercati, le società telefoniche, gli autogrill, le aziende televisive. Gli istituti di pagamento nascono con un capitale minimo che va da 25mila a 125mila euro, devono essere autorizzati dalla Banca d’Italia (per cui sono sotto controllo) e sono obbligati ad aderire all’Abf, ossia all’Arbitro bancario e finanziario, una sorta di difensore civico del consumatore. In parole povere la differenza è questa: se la banca ti aiuta a risparmiare, l’istituto di pagamento ti aiuta a spendere. È comprensibile dunque che i primi fondatori delle Qb si chiamino Coop, Carrefour, Sma, e forse i prossimi saranno Telecom o Vodafone, le Ferrovie dello Stato, le tv digitali. A questo punto ci chiediamo: la concorrenza delle quasi-banche porterà ad una maggiore e reale trasparenza delle banche vere? Speriamo di sì. La aspettiamo da decenni.
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15 Luglio 2010
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