di Faina
La serva serve, diceva Totò. E il servo? Muto, dice l’arredatore. Ma qui abbiamo un caso di servo parlante, o cripto-servo. Fuor di metafora, e dentro la cronaca: ieri Gianfranco Fini ne ha fatta un’altra delle sue, dicendo che ci vorrebbe “una leggina di poche righe in cui si afferma che chi è stato condannato con sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione non si può candidare per cinque anni”. I soliti elogi: ecco, lui sì che è diverso. Ma nessuno ha fatto notare che quella leggina esiste già. Si chiama codice penale, e dispone che le condanne per peculato o concussione comportano l'interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 317-bis); e in generale tutte le condanne a più di 5 anni – pena possibile per la corruzione e molti altri reati contro la pubblica amministrazione – fanno scattare la stessa interdizione perpetua (art. 29). Il che vuol dire semplicemente questo: che se la proposta di Fini diventasse legge, non sarebbe un inasprimento (da nessun divieto a un divieto di cinque anni) ma un colpo di spugna (dall’interdizione perpetua a un’interdizione temporanea). Eppure il presidente della Camera ce l’avrà un ufficio legale, o anche solo un portaborse sfigato con la sua inutile laurea in giurisprudenza. Ce lo vediamo, che sta lì a sussurrargli: “Perpetua, presidente, perpetua”. Ma Fini avrà preso il libro sbagliato: invece del Codice penale, i Promessi sposi. Precisamente nel punto in cui dice: “Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di Don Abbondio...”.
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